
Zenzero e curcuma nelle mense scolastiche. A Roma integrazione significa indigestione
Avevo promesso di parlare della “valutazione” ma rinvio perché è occorsa una bizzarra vicenda che merita attenzione. Premessa: per esentare uno studente dall’ora di religione scolastica basta una semplice comunicazione al preside. Invece per esentare un bambino di una scuola materna romana dai pasti multietnici mensili volti ad «aprire una finestra sul mondo», bisogna recarsi di persona all’Ufficio Scuola del Municipio nei giorni di ricevimento del pubblico. Ogni tentativo di trasmettere la domanda tramite la scuola o via fax è vana: bisogna andare di persona, saltando il lavoro e, chissà, supplicando. Questa iniziativa del Comune di Roma impone ogni mese un pasto dei seguenti paesi: Bangladesh, Romania, Albania, Polonia, Perù, Cina, Filippine, Marocco. Lo scopo pomposo è «costruire una società interculturale e non soltanto multiculturale». Mangiando le culture diverse si costruisce nientedimeno che un «laboratorio di inclusione sociale». Il carattere pedagogico-autoritario dell’iniziativa non si esprime soltanto nella inquietante imposizione di doversi recare allo sportello di persona per l’esenzione, ma anche nell’invito a «responsabilizzare gli insegnanti affinché preparino didatticamente gli alunni». Ci si può ben figurare a che cosa può ridursi la “preparazione didattica” al pasto etnico di bambini di tre o quattro anni. Roba del tipo: «Ora assaporerete, bimbi, i sapori di una terra lontana, da cui vengono altri bimbi poveri che ora sono qui da noi. Provate, vi sembreranno sapori strani, ma vi ci abituerete. E quando tutti mangeranno i cibi dell’altro, ci vorremo tutti bene e vivremo in un solo mondo per tutti». Per fortuna, con i bimbi la retorica finisce in farsa.
Il primo pasto del Bangladesh conteneva cinque spezie: cardamomo, zafferano, curcuma, cumino e zenzero. Un po’ pesantuccio. Forse, dovendo proporre un pasto italiano a un bimbo di tre anni del Bangladesh, non cominceremmo con un’amatriciana o una carbonara. Infatti l’esperienza è stata una mezza catastrofe: intere classi hanno digiunato ed è stato buttato via tutto. L’assessore alla scuola ha detto che non è poi andata così male, aggiungendo: «Certe polemiche a priori nascondono in realtà posizioni razziste». Così il sorriso sulle labbra che abbiamo tenuto fin qui si spegne. Andiamoci piano con gli epiteti. Potrei dire, al contrario – e non sono affatto il solo a pensarlo – che è proprio l’ideologia multiculturalista a fomentare la separazione e il razzismo, ma non arriverei al punto di accusare chi ha avuto questa pensata di essere soggettivamente razzista. All’uscita dalla scuola ho incontrato un’anziana signora con il volto insanguinato per essere caduta sul marciapiede dissestato, come lo sono quelli di tutta la città, un autentico disa-stro. Gli amministratori hanno il dovere primario di far funzionare le scuole, i trasporti, curare l’igiene e la pavimentazione stradale. Abbandonino la velleità di fare gli educatori, i creatori di “laboratori di inclusione sociale” o addirittura di nuove società “interculturali”. Questi sono temi complessi su cui non è facile mettersi d’accordo. Non è legittimo sentirsi autorizzati a dare per scontato quel che non lo è, imponendo alla cittadinanza iniziative discutibili sulla scorta di teorie dilettantesche, per giunta con stile da pedagogia impositiva. Se proprio si vuole, invece di proiettare film che negano gli attentati dell’11 settembre, si organizzi un convegno su questi temi in cui possa dire la sua anche chi non aderisce a certi conformismi correnti, come quello della teoria sbilenca del “passaggio dalla società multiculturale alla società interculturale”.
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