
Wystan Auden
«Una mattina ero entrato nella chiesa di St. Mark’s-in-the-Bowery, al Greenwich Village. Auden era lì, visibilmente ubriaco, la giacca sporca di vomito. Ma era in ginocchio, e pregava». Non parla per sentito dire Michael Aeschliman, professore di letteratura inglese alle università di Boston e di Lugano: ha vissuto a lungo a New York, e gli ambienti più liberal e trasgressivi dell’East Coast – «come facessero a vivere nel più sfrenato individualismo e a essere insieme fanatici del collettivismo comunista Dio solo lo sa» – li conosce di prima mano. Oggi collabora con le maggiori testate dei neoconservatori statunitensi, dalla National Rewiew a First things. Con Tempi apre il cassetto dei ricordi e soprattutto della passione per Wystan Hugh Auden, il “poeta maledetto” di cui ricorre quest’anno il centenario – nacque infatti il 21 febbraio 1907.
Come è nato il suo interesse per Auden?
Da quello per Eliot, che ho amato fin da ragazzo. Thomas Stearns Eliot è stato il gigante della letteratura inglese del secolo scorso, un punto di svolta: l’ha condotta da una concezione puramente formale, estetizzante a una in cui la scrittura è un modo per esprimere i drammi dell’umano. Allo stesso tempo, Eliot era talmente grande che ha favorito anche artisti, pensiamo a James Joyce o Ezra Pound, che avevano concezioni lontanissime dalla sua. Ed è stato lui a far pubblicare la prima raccolta di versi di Auden, anche se, ancora una volta, quel giovane talento si collocava agli antipodi della sua posizione culturale.
Chi era il giovane Auden?
Era un figlio del clima terribile della Oxford del primo dopoguerra, un’alleanza perversa tra un estremismo radicale in politica – a sinistra ovviamente – e un nichilismo estetizzante nei comportamenti personali; per cui ogni immoralità, ogni eccesso era non solo tollerato, ma visto come la via per raggiungere una forma di coscienza superiore. Fra le mura di Oxford aleggiava ancora lo spirito del dandysmo di Oscar Wilde, quei giovani avevano fatto loro un celebre verso di William Blake: «La via dell’eccesso conduce al palazzo della saggezza». Lì Auden abbandonò totalmente la fede dei padri – entrambi i nonni e quattro zii erano pastori anglicani, e l’atmosfera in casa, scriverà più tardi «era profondamente devota, ma in nessun modo repressiva o triste» -, diede libero sfogo alle sue tendenze omosessuali, godendo se poteva dare pubblico scandalo con le sue relazioni, acquisì un’abitudine all’alcol di cui non riuscirà a liberarsi più.
Perché poi fece la scelta di andarsene a Berlino?
Insieme al suo compagno di allora, volle toccare con mano la città più trasgressiva d’Europa, quella Berlino immortalata nel film Cabaret in cui l’eccesso era la norma. Poi tornò in Inghilterra, lavorò cinque anni come maestro elementare, quindi cominciò una multiforme carriera di scrittore – poesie, saggi, articoli di giornale, testi teatrali, collaborazioni con film e opere musicali – che lo fece diventare una celebrità. Così quando, nel 1939, di fronte al pericolo nazista, decise di trasferirsi negli Stati Uniti, l’intero paese lo accusò di codardia.
Il trasferimento negli Stati Uniti e l’accusa di codardia che ne seguì furono un episodio decisivo nella sua vita. Come si rifletté nella sua opera?
L’accusa lo ferì e per la prima volta lo fece riflettere sul senso delle responsabilità morali. Così prese a interrogarsi anche su quel che stava accadendo nel mondo, e capì che il nazismo, la guerra, altro non erano che la conseguenza dell’irresponsabilità degli intellettuali come lui, di quel “tradimento dei chierici” di cui aveva scritto Julien Benda: gli intellettuali che avevano “tradito la tradizione”. «Dio, perdona il tradimento dei chierici» scriverà più tardi «le cui vite sono così peggiori delle loro parole». E definirà gli anni Trenta «un decennio vile e disonesto». Ma forse questa riflessione non sarebbe bastata a cambiargli la vita, se non ci fossero stati degli incontri fondamentali.
Come avvenne il suo cambiamento?
Era già stato molto colpito dalla lettura di Eliot e di Tolkien – nel 1945 pubblicherà la prima grande recensione americana de Il signore degli Anelli, quando il libro di là dall’Atlantico era ancora sconosciuto -; l’episodio decisivo fu però l’incontro con Reinhold Niebuhr. Egli è stato il protagonista della rinascita della teologia protestante americana; ha per primo riproposto il cristianesimo come risposta al bisogno di significato della vita, alla domanda drammatica dell’esistenzialismo. Insieme a Denis De Rougemont, altro grande cristiano, svizzero emigrato a New York, combatté duramente contro i liberal che non volevano entrare in guerra. Al loro pacifismo ideologico contrappose un sano realismo cristiano: di fronte a una minaccia come quella di Hitler, il soldato cristiano non può far altro che “uccidere con dolore”.
Così Auden divenne amico di Niebuhr?
Di Niebuhr e della moglie. Pensi, Ursula era stata la prima donna laureata in teologia a Oxford, aveva letto i libri di Niebuhr, aveva voluto andare a New York per studiare con lui e finì per sposarlo. Casa Niebuhr divenne il porto in cui Auden trovò non solo una convincente risposta intellettuale alle sue inquietudini, ma anche una sincera amicizia. E tornò alla fede anglo-cattolica della sua famiglia.
Il ritorno alla fede non cambiò il suo stile di vita.
Era un alcolista ormai cronico, e l’omosessualità faceva parte di lui. Ma cambiò radicalmente l’atteggiamento: mentre prima sbandierava i suoi vizi con orgoglio, cominciò a vergognarsi della propria debolezza. E in pubblico non fece mai mistero delle sue nuove convinzioni, anche in mezzo ai liberal del Greenwich Village che continuava a frequentare.
Come cambiò la sua opera dopo la conversione di quegli anni?
Nelle sue poesie entrò una nota nuova, l’ironia: lo sguardo di chi coglie il limite umano e non se ne scandalizza. Può sorriderne, come nell’Oratorio di Natale For the time being, senza che venga meno la drammaticità della nostra condizione. Chiunque può farsene un’idea leggendo le Lezioni su Shakespeare appena pubblicate in italiano: di fronte a un pubblico eterogeneo e vociante, ribadisce costantemente la “psicologia cristiana” che sta alla radice di tutte le opere shakespeariane, e le commenta leggendo a piene mani i suoi autori preferiti, Agostino, Kierkegaard, Pascal.
Molti critici preferiscono le sue opere giovanili piuttosto che quelle della maturità. Come mai?
Solo per motivi ideologici: amano l’urlo ribelle, l’impeto trasgressivo; ma dal punto di vista stilistico gli ultimi lavori di Auden non hanno niente da invidiare ai primi. Certo, il tono è diverso, più quotidiano, riconciliato; ma la lingua rimane scintillante, perfetta. Lui è sempre stato un artigiano del verso, ha sempre amato le forme tradizionali; anche da giovane, non ha mai ceduto alla tentazione della poesia “moderna”, senza metro, senza rime. Ha sempre sperimentato, lungo tutto l’arco della carriera, tutto lo spettro delle forme poetiche tradizionali. In modo creativo, libero: la creatività che cresce dal rispetto – nel senso profondo – della tradizione. La verità è che Auden fu un eroe, perché riuscì a strapparsi dal nichilismo estetizzante in cui era cresciuto. E questo non gliel’hanno mai perdonato.
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