
Oggi è la giornata delle emoji, simpatiche come una condanna in tribunale

All’inizio di ogni World Emoji Day (sì, anche oggi è la Giornata mondiale dell’emoji) si fa largo all’epica, al racconto dei primi segni grafici inventati nell’82 da Scott Fahlman, informatico e professore alla Carnegie Mellon’s School of Computer Science, e a seguire delle emoji commissionate alla fine degli anni 90 dalla più grande compagnia di telefonia nipponica al 25enne designer giapponese Shigetaka Kurita, «semi di una nuova, globale, forma di comunicazione», avrebbe proclamato Paul Galloway, il curatore del MoMa che ne fece una collezione permanente nel 2016.
E seguì la consacrazione di Standards Manual, bibbia per i graphic designer, che lanciarono su Kickstarter l’acquisto del primo manuale di faccette, lo studio di Apple per l’iPhone, e prima ancora l’ingresso delle emoji nel dizionario Oxford quale “parola dell’anno”, l’istituzione, nel 2014, di una Giornata mondiale dell’emoji per celebrare la neolingua che avrebbe sconvolto la comunicazione digitale. Fu allora che linguisti di ogni risma ci spiegarono che le emoji non avrebbero mai sostituito le parole, anzi: avrebbero integrato, chiarito le nostre “intenzioni comunicative”, andando a colmare il divario tra lo scritto e il ben più attrezzato arsenale comunicativo del parlato: una nuova lingua universale ci avrebbe aiutato a comunicare le nostre emozioni online ed evitare fraintendimenti.
«L’emoji con il pollice in su vale come firma»
Pochi anni e migliaia di faccette inclusive e polemiche dopo (ricordate quelle sull‘Emoji Dick, il capolavoro di Melville riscritto coi disegnetti delle balene? E il dibattito lanciato sul Corriere sull’opportunità di usare le escremoji, le feci accigliate?), alla vigilia del World Emoji Day 2023 e a proposito di fraintendimenti, ha creato scompiglio la sentenza di un giudice della corte suprema canadese.
Il quale ha deciso i mandare in vacca tutta l’epica e la retorica dei linguisti mettendo nero su bianco che l’emoji è tutt’altro che un orpello integrativo ma è in sé e per sé «una maniera valida di trasmettere il concetto», nella fattispecie «l’atto di una firma», quella che l’agricoltore Chris Achter avrebbe apposto in calce all’invio di un contratto rispondendo con un pollice all’insù.
Per il giudice canadese «la corte non può arginare la tecnologia»
Siamo nella provincia del Saskatchewan, e l’agricoltore è stato costretto a pagare 82mila dollari canadesi (circa 56.200 euro) a un compratore che nel 2021 gli aveva inviato la foto di un contratto per la fornitura di 86 tonnellate di lino. Contratto mai onorato: a poco è valsa la difesa dell’agricoltore che affermava di aver risposto alla foto con un pollice di semplice “confermata ricezione”. «Le parti si sono impegnate in una ricerca a tutto campo per l’equivalente della Stele di Rosetta, setacciando casi da Israele, dallo stato di New York e altri tribunali in Canada, per cercare di decifrare l’esatto significato della emoji che raffigura il pollice in su» e, tenuto conto dei precedenti accordi informali tra agricoltore e compratore, il giudice ha concluso che il pollice bastava e avanzava come firma.
«La corte non può (né dovrebbe) tentare di arginare la marea della tecnologia e dell’uso corrente delle emoji. La nuova realtà della società canadese sembra essere questa, e le corti dovranno essere pronte ad affrontare le nuove sfide che possono presentarsi dall’uso delle emoji e simili». Il che non somiglia affatto allo “state sereni, è la fine dei fraintendimenti” dei linguisti.
Quando l’emoji della pistola diventò una «credibile minaccia di morte»
Del resto i segnali non mancavano nemmeno all’apice dell’emojimania: nell’anno 2016 a Drome, sud est della Francia, un ragazzo di 22 anni è stato condannato a sei mesi di carcere (pena sospesa) e a pagare una multa di 1.000 euro per avere inviato alla sua ex fidanzata una emoticon raffigurante una pistola: secondo il giudice l’emoji rappresentava una credibile minaccia di morte (nel 2018, WhatsApp ha sostituito l’emoji con quella di una pistola ad acqua).
Senza andare lontano, nel 2019 il Tribunale di Parma ha considerato illegittimo il licenziamento di un’operaia che in una chat tra colleghe aveva rivolto al datore di lavoro commenti negativi anche piuttosto pesanti che però erano intervallati da emoticon che rendevano gli insulti «più canzonatori che offensivi».
L’emoji che ride scagiona, l’escremoji condanna
Le faccine sorridenti avevano già scagionato nel 2018 un datore di lavoro accusato di condotte vessatorie da un’insegnante: per il Tribunale di Roma l’uso di faccine affettuose da parte di quest’ultimo «denota un rapporto di familiarità e cortesia», «un clima del tutto sereno e collaborativo».
Non è andata bene un anno fa a Laura Bocchi, consigliera comunale leghista di Verona, condannata a pagare un risarcimento di 4mila euro per aver pubblicato l’emoji di una cacca su Facebook: il post che attaccava l’attivista ambientale Chiara Tosi che si opponeva al taglio degli alberi per far passare la filovia non era offensivo ma la cacca sì. Per il giudice «la critica sull’operato di Chiara Tosi si sarebbe potuta esprimere senza ricorrere a immagini di dileggio, superflue rispetto al diritto di manifestare il proprio disappunto o disaccordo».
Le emoji arrivano in Cassazione
Risultato? Multa e obbligo di pubblicare ogni giorno, per sette giorni di fila, sulla propria bacheca di Facebook questa formula: “Come disposto della Sentenza n. 107/2022 del 24/1/2022 provvedo a pubblicare quanto segue: “Il Tribunale di Verona… omissis… accerta che l’emoticon dell’escremento apposto nel post pubblicato nel proprio profilo facebook il 29.12.2019 da Laura Bocchi è lesivo della persona di Chiara Tosi e della sua reputazione”.
A gennaio la Cassazione ha stabilito che le emoji sui social possono essere diffamatorie (nel caso specifico, faccette sorridenti usate per dileggiare la miopia del destinatario). Insomma, forse le faccette non potranno mai sostituire il linguaggio, ma fare giurisprudenza sì.
Foto Ansa
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