
Vuoi vedere che ci giochiamo la NATO?
A difendere a spada tratta “Operation Allied Force”, a seminare disprezzo sulle iniziative diplomatiche di Santa Sede e Italia, e a parlare di “Hitlerosevic” ormai sono rimasti soltanto Pannella, La Malfa, Socci e L’Espresso. I quali, come si suol dire in questi casi, sono ormai più realisti del re. A mettere in dubbio il buon fondamento dell’intervento militare della Nato in Serbia e Kosovo, infatti, non sono più soltanto europei affetti da antiamericanismo viscerale o cattolici ipocriti: no, le riserve più forti arrivano proprio dall’America, dal cuore dell’impero, rispetto al quale gli “amerikani” di casa nostra fanno la figura dei provinciali ritardatari. A sollevare dubbi e ad avanzare critiche in quel di Washington e New York non sono i soliti isolazionisti della destra repubblicana alla Pat Buchanan, o i soliti intellettuali di sinistra alla Noam Chomsky. A esprimere dispetto per il modo in cui è stata decisa la guerra e grave preoccupazione per le imponderabili prospettive che si aprono è il cuore stesso dell’establishment, dal Senato a maggioranza repubblicana al New York Times, dal Centro di studi strategici e internazionali di Edward Luttwak al Council on Foreign Relations di Michael Mandelbaum.
“Milosevic non è Hitler, parola di Kissinger”
Il più completo e articolato compendio di rilievi critici alle decisioni e alle argomentazioni del presidente Clinton e del segretario di Stato Albright l’ha stilato un certo Henry Kissinger, lui pure segretario di Stato qualche annetto fa, su Newsweek: “L’amministrazione, utilizzando simboli che hanno una grande risonanza presso l’opinione pubblica, ha proposto tre tipi di argomentazioni. La più convincente è che il calvario del Kosovo è così intollerabile per la nostra sensibilità morale che, per porvi termine, dovremo usare la forza, anche in assenza delle tradizionali considerazioni dell’interesse nazionale. Ma poichè questo lascia senza risposta la domanda del perché non interveniamo nell’Africa orientale, nello Sri Lanka, nel Kurdistan, nel Kashmir e nell’Afghanistan – per citare soltanto alcuni dei luoghi dove il numero delle vittime è stato infinitamente superiore che non nel Kosovo – il presidente ha evocato analogie storiche o minacce attuali che lasciano estremamente perplessi: Slobodan Milosevic non è Hitler, ma un criminale serbo. Né Milosevic, né alcun altro leader balcanico è nella posizione di minacciare l’equilibrio internazionale, come il presidente continua a sostenere. Io comprendo le motivazioni umanitarie per l’intervento, ma questo non esime le democrazie dall’obbligo di proporre una soluzione accettabile. L’accordo di Rambouillet non soddisfa queste esigenze. L’aver condotto negoziati sulla base di accordi stilati esclusivamente nelle cancellerie straniere e il cercare di imporli con la minaccia di bombardamenti ha soltanto esacerbato la crisi in Kosovo. (…) La Serbia nella storia ha resistito agli imperi ottomano e austriaco, a Hitler e a Stalin. Anche se fossero sottoposti a bombardamenti fino alla capitolazione, difficilmente potremmo aspettarci da loro un atteggiamento di accettazione dell’esito del conflitto. (…) Poichè la guerra continua, l’amministrazione deve ridefinire i suoi obiettivi. La Nato non può sopravvivere, se ora abbandona la campagna senza aver raggiunto il suo obiettivo”. La più grande preoccupazione di analisti ed esperti di strategia riguarda proprio la Nato. Spiega l’insospettabile Luttwak: “Ormai sono in gioco il rapporto tra gli alleati europei e gli americani ed il significato e ruolo della Nato. Una ritirata sarebbe un colpo durissimo all’Alleanza atlantica. E’ per questo che Kissinger ha criticato la scelta di attaccare la Jugoslavia, poichè è convinto che non valeva la pena rischiare il futuro dell’Alleanza su una cosa così piccola”. Michael Mandelbaum la Nato la dà addirittura già per persa, e con sarcasmo scrive che le celebrazioni per il 50° anniversario dell’Alleanza sono “un funerale camuffato da matrimonio”: “Gli Stati Uniti hanno voluto imporre un nuovo concetto strategico, che impegna l’Alleanza in nuovi compiti: mantenimento della pace come in Bosnia, intervento militare come in Jugoslavia, ecc… L’attuale guerra in Jugoslavia illustra perfettamente la ragione per cui il il nuovo concetto strategico non è nient’altro che retorica: ci sono limiti molto stretti a quello che i governi occidentali sono disposti a pagare per compiere missioni che non riguardano la loro propria difesa e, perciò, non coinvolgono i loro interessi vitali. In particolare, questa guerra sta dimostrando che i governi sono estremamente riluttanti a rischiare perdite umane. (…) La Nato può infine mandare truppe di terra in Jugoslavia; tale campagna può sfociare in un successo pieno, l’Alleanza può ottenere una vittoria rapida e con poche perdite. Le forze della Nato potranno allora in breve tempo imporre l’accordo politico sul Kosovo che i serbi avevano rifiutato a Rambouillet. Ma le probabilità di una soluzione rapida e nitida come questa sono più o meno le stesse che ha il sole di sorgere a ovest”.
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