
Vorrei una Milano che lasci fare chi sa fare
È in edicola con il settimanale Tempi, lo speciale Più mese dedicato a Milano. Il titolo di copertina è “Largo a chi ha voglia di fare” e, al suo interno, vi si trovano sette interviste a voci illustri della città, cui sono state poste nove identiche domande. Hanno risposto Oscar Giannino, editorialista e conduttore di radio 24, Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, Jacopo Tondelli, direttore del sito web Linkiesta, Paola Soave, Sindacato delle Famiglie, Danilo De Biasio, ex direttore di radio Popolare, Luca Fois, designer e docente del Politecnico di Milano, Gabriele Albertini, ex sindaco della città ed europarlamentare. Pubblichiamo l’intervista a Paola Soave.
Il debito del Comune di Milano ha assunto le stesse patologie del debito dello Stato. Continua a crescere e non c’è diretta corrispondenza tra i sacrifici richiesti ai cittadini e i servizi erogati.
Nomini un servizio pubblico che potenzierebbe e perché.
Potenzierei il servizio Informafamiglia. Si tratta di un servizio sperimentale nato sotto la giunta precedente ma che, dopo circa un anno di attività, è stato chiuso dalla nuova giunta. Il servizio dato in gestione a un’organizzazione del terzo settore, in un’ottica sussidiaria, andando al di là del mero assistenzialismo, offriva aiuto alle famiglie che, nelle diverse fasi del loro ciclo di vita, risultavano deficitarie di risorse e bisognose di un aiuto nello svolgimento dei compiti di cura, di accoglienza, di assistenza e di educazione loro propri e connaturali. Dotato internamente di un pool di specialisti, sebbene in numero ridotto, Informafamiglia ha ottimizzato le risposte alle famiglie in difficoltà orientandole – laddove la tipologia dei bisogni presentati esulavano dall’ambito delle competenze dei suoi operatori interni – verso il servizio che più efficacemente potesse rispondere alle loro necessità, accompagnando e sostenendo la presa in carico delle fragilità e dei bisogni più complessi, da parte dei servizi specialistici. In tal modo ha creato una rete di collaborazione, sinergia e socializzazione con la molteplicità dei soggetti presenti sul territorio cittadino che operano a sostegno della famiglia in senso lato. Il servizio ha operato creando reti territoriali o usufruendo di reti già attive, con l’obiettivo di permettere un confronto continuativo tra agenzie diverse, al fine di elaborare modalità di intervento condivise, innescando un circolo virtuoso e sinergico tra tutte le risorse in campo. Gli attori della rete concretamente coinvolti sono stati: i servizi pubblici, gli enti privati attivi nel sociale e le associazioni familiari. Queste ultime hanno rappresentato un modello del tutto singolare perché, in diversi casi, i soggetti preposti ad offrire aiuto alle famiglie in difficoltà sono state altre famiglie, nella logica che una famiglia può divenire risorsa per un’altra famiglia.
E un servizio che non farebbe fare più al Comune?
Il Comune gestisce numerosissime strutture scolastiche per l’infanzia (asili nidi, scuole materne, case vacanze, centri ricreativi, ecc.) con ingenti costi di personale, di gestione e manutenzione dei beni immobili, arredi e attrezzature. La gestione di tali servizi per l’infanzia potrebbe essere affidata a terzi (ad esempio ad organizzazioni del terzo settore) i quali potrebbero sicuramente garantire l’erogazione degli stessi servizi con standard qualitativi più alti e a costi decisamente più contenuti.
Le tasse non bastano mai. Come potrà sopravvivere Palazzo Marino?
Le azioni che potrebbero essere messe in atto sono numerose. Ne cito solo alcune: riduzione del personale dipendente attraverso un’adeguata politica di tagli delle figure superflue o in sovrannumero; blocco delle nuove assunzioni e ottimizzazioni delle risorse in organico; tagli della spesa corrente (il livello di spreco della pubblica amministrazione è altissimo); vendita delle quote azionarie e del patrimonio immobiliare.
Non sarebbe opportuno ripensare il suo ruolo?
Non solo sarebbe opportuno ma è necessario e urgente. Occorre che il Comune attui uno spostamento di baricentro: che passi, cioè, dall’offerta diretta di servizi all’incentivazione alla presa in carico degli stessi servizi da parte della società civile (privati, organizzazioni del terzo settore, associazioni), conservando un ruolo di regolamentazione, coordinamento e controllo. Tale modello, se applicato per esempio al welfare, genererebbe una solidarietà non più mediata dal pubblico. L’ente pubblico potrebbe quindi impiegare le poche risorse di cui dispone in maniera più efficace, lasciando al terzo settore e ai privati l’iniziativa del “fare”. Potrebbe finalmente impegnarsi a fare meglio le poche cose che deve fare, invece che farne troppe e per giunta male.
Immagini un Comune dimagrito del 90 per cento: personale, spesa corrente, quote azionarie, patrimonio immobile, rappresentanti politici. Le piace?
Non posso dissentire da un’immagine simile che presuppone un taglio netto degli sprechi nel sistema pubblico e che implicherebbe necessariamente una transizione a un sistema “bottom up”, che faccia, cioè, assegnamento in prima battuta su realtà di carattere privato e nate spontaneamente dalla e nella società: una realtà necessariamente focalizzata su bisogni ed esigenze realmente presenti.
Un giorno senza Comune. È un pensiero assurdo?
Parrebbe un’ipotesi un po’ troppo drastica ma se mi domandassi quali dei servizi che il Comune eroga sono talmente indispensabili al punto che la sola sospensione di una giornata provocherebbe seri danni, ne evidenzierei ben pochi.
Dal Comune che fa e spende per te al Comune che stabilisce regole e spinge a fare. È d’accordo?
In linea di massima sono d’accordo. È però necessaria una gradualità per permettere alla società civile di maturare una capacità di autonomia e volontà di intraprendere. Solo in tal modo sarebbe possibile superare o quantomeno affiancare validamente il welfare pubblico dimostratosi palesemente inefficiente e ormai incompatibile con il contesto di “crisi fiscale permanente” nel quale siamo e sempre più vivremo negli anni a venire. Prevarrebbe così il modello “più società meno stato” improntato al principio di sussidiarietà e di solidarietà e a logiche di “sana concorrenza” in cui sarebbero incentivate e valorizzate le iniziative dei privati, dei cittadini, delle associazioni.
Inventi un servizio che ancora non esiste.
Vista la molteplicità dei servizi erogati dall’ente pubblico e dai privati in una città come Milano, penso che più che inventare un servizio che non esiste, sarebbe opportuno far funzionare meglio i servizi già esistenti mettendoli in rete. Spesso servizi simili o che rispondono a bisogni di una stessa utenza o ancora operanti in uno stesso ambito, sono settoriali ed operano isolatamente contando esclusivamente sulle proprie risorse interne che sono normalmente insufficienti rispetto ai bisogni dell’utenza. Lavorare in rete, attivando sinergie, collaborazioni, confronti e raccordi permette invece di moltiplicare le risorse a vantaggio della qualità del servizio stesso. Per questo, ad esempio, sarebbe auspicabile che servizi di una stessa tipologia o operanti in uno stesso territorio possano essere aiutati a lavorare insieme attraverso uno specifico percorso programmato e con l’ausilio di un soggetto esterno e/o interno. In tal modo ciascun servizio ne risulterebbe ottimizzato e reso più efficace ed efficiente, quindi del tutto nuovo.
A chi lo farebbe fare?
Affiderei il compito di facilitatore del lavoro di rete ad un organismo costituito da operatori interni a ciascun servizio (raggruppandoli per tipologia, per es. i servizi per la famiglia, i servizi educativi, ecc) e a un coordinatore esterno, costituendo una sorta di authority.
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