«Vorrei che il Papa venisse in Iraq tutti gli anni»

Di Leone Grotti
08 Marzo 2021
Qaraqosh accoglie Francesco: «Bisogna avere il coraggio di perdonare ma anche di continuare a lottare». Dal nostro inviato

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Qaraqosh si sveglia presto per il grande giorno. L’arrivo di papa Francesco è previsto intorno alle 11 ma alle 6 del mattino la strada che collega l’ingresso della città, dove è atteso l’atterraggio dell’elicottero con a bordo il Papa di ritorno da Mosul, con la chiesa dell’Immacolata Concezione è già piena di gente. Nessuno vuole perdersi «l’evento storico» e i cristiani, ma ci sono anche tanti musulmani, fanno a gara per contendersi un posto in prima fila.

Il dispiegamento di forze per prevenire attentati è ingente: nessuno può avvicinarsi alla strada principale senza un apposito badge, distribuito a tutti i fedeli, gli elicotteri sorvolano la città mentre l’esercito è appostato ovunque, a ogni angolo di strada e sopra i tetti di ogni casa. La visita del Papa infatti è anche una scommessa e il governo vuole lanciare un messaggio: l’Iraq è tornato sicuro, la stagione del terrorismo è finita.

Chi l’avrebbe mai detto?

Fin dalle prime ore del mattino padre Roni Momika è in fibrillazione. È lui che ha preparato i balli, i canti e le coreografie per accogliere degnamente il Papa. È visibilmente agitato, non riesce a star fermo e corre e salta da una parte all’altra della strada incitando le migliaia di persone ad alzare la voce, a cantare, a fare festa. Perché oggi Qaraqosh è in festa: «Il Papa, qui, a casa nostra», ci dice senza fiato. «Ma ti rendi conto? Chi l’avrebbe mai detto?».

Di sicuro non lui, che nell’agosto 2014 fu l’ultimo a lasciare Qaraqosh insieme al vescovo siro-cattolico di Mosul, monsignor Boutros Moshe, per l’invasione dell’Isis. Allora era ancora un seminarista e faceva da segretario al vescovo. «Dormivamo nel seminario, non volevamo abbandonare la città. Ma quando un proiettile infranse una finestra e si conficcò nel muro, capimmo che era giunto il momento. Il vescovo suonò per l’ultima volta la campana della chiesa e ce ne andammo». Ma ora tutto questo è un lontano ricordo perché «sta per arrivare il Papa, ci darà speranza e il popolo tornerà a Qaraqosh».

«Non si delude un popolo»

La parola non è scelta a caso: più che mai in questo giorno la gente che si assiepa in strada per vedere il Papa è un vero e proprio popolo. Tutto trasuda gioia ed esaltazione: i vestiti tradizionali delle donne, chiassosi e accecanti con i loro rosa, viola, verde smeraldo e azzurro cielo sfavillanti mischiati insieme; i balli concitati al rullo dei tamburi; lo sventolio incessante delle bandiere: gli inni cantati a squarciagola e, a tratti, in modo sguaiato; gli altoparlanti che gridano a tutto volume. «Siamo eccitati e siamo grati», conferma il giovane Aram Khalil. «Vorrei che il Papa venisse tutti gli anni».

Anche lui sa che non succederà, ma tanta gioia scaturisce proprio dalla consapevolezza che questo viaggio di papa Francesco era quasi impossibile. Pur di venire in Iraq e in particolare qui a Qaraqosh, per riconoscere la grandezza di «un piccolo gregge» che ha sofferto immensamente negli ultimi anni per mantenere la fede, il Santo Padre ha sfidato il terrorismo, la guerra, la pandemia di Covid-19. Non si è fatto spaventare neanche dagli attentati che nell’ultimo mese hanno falcidiato Baghdad e lo stesso aeroporto di Erbil. Pur sapendo di mettere a rischio la propria incolumità, il Papa ha voluto partire alla volta dell’Iraq, compiendo il sogno che Giovanni Paolo II non riuscì a realizzare, e rispondendo a tutte le critiche così: «Non si può deludere un popolo per la seconda volta».

Cori e canti

Quando i teleschermi trasmettono l’atterraggio dell’elicottero del Papa verso mezzogiorno, con un’ora di ritardo, le voci fiaccate dalla stanchezza e da tante ore di attesa, sotto un sole cocente, si rinvigoriscono ed esplodono nel canto: «La gioia del Signore resta con noi. Papa Francesco è tra noi». Il lungo corteo di automobili blindate partono alla volta della cattedrale. Anche il Pontefice ha dovuto a malincuore rinunciare alla papamobile, perché tra coraggio e incoscienza c’è una bella differenza, e viaggia su un’auto blindata. La notizia aveva fatto storcere il naso a molti fedeli nei giorni scorsi, ma quando Francesco arriva non c’è più spazio per i mugugni, spazzati via da cori e canti. Forse rompendo il protocollo il Papa abbassa il finestrino per allungare la mano verso la gente, che lo ricambia visibilmente soddisfatta.

«Duha mi ha commosso»

Dopo essere entrato nella chiesa dell’Immacolata concezione, sormontata da una splendida statua della Madonna, accompagnato dal patriarca dei siro-cattolici Ignazio Giuseppe III Younan, papa Francesco ascolta le commoventi testimonianze di padre Ammar Yako e soprattutto di Duha, la mamma del piccolo David, uno dei tre bambini uccisi a Qaraqosh il 6 agosto 2014 dalla prima bomba lanciata dall’Isis dentro la città. Come anticipato in un’intervista a tempi.it, Duha parla della tragedia della morte del figlio e dichiara di aver perdonato i jihadisti. La testimonianza è così forte che il Papa, presa la parola, dichiara: «Una cosa che ha detto Duha mi ha commosso: il perdono è necessario per restare cristiani. Bisogna avere il coraggio di perdonare ma anche di continuare a lottare. Dio può portare la pace in questa terra ed è in Lui che noi confidiamo».

Il Papa tocca le corde giuste, con un discorso che è di immensa importanza per un popolo che ha bisogno di sentirsi incoraggiato a restare in Iraq nonostante le mille difficoltà, a partire da un governo che non fa nulla per aiutarli fino all’aggressività di gruppi islamici che cercano di cacciarli: «Vi incoraggio a non dimenticare chi siete. Non arrendetevi, non perdete la speranza. I santi vegliano su di voi, invocateli. Perdonate, mettete a frutto i doni di Dio, pregate per la conversione dei cuori e collaborate con coraggio con tutte le persone di buona volontà per ricostruire. La Madonna che ci guarda dall’alto, e la cui effigie qui è stata ferita e calpestata, interceda per voi».

«Non siete soli»

Nel suo discorso Francesco, segnato soprattutto dalla distruzione vista a Mosul, ricorda «con grande tristezza i segni della violenza, dell’odio e della guerra. Quante case sono distrutte, quante sono da ricostruire. Ma il terrorismo e la morte non hanno l’ultima parola, perché questa appartiene a Dio». I vostri padri, aggiunge, «hanno faticato per perseverare nella fede. Questa è la grande eredità spirituale di cui dovete fare tesoro, questa sarà la vostra forza per ricominciare e ricostruire questa terra, affidandovi a Dio. Non siete soli, la Chiesa universale vi è vicina».

Dopo l’Angelus, è già ora di andare. Il Papa è atteso a Erbil per la Messa del pomeriggio. La gente di Qaraqosh torna ad assieparsi sulle strade per salutare l’auto che riporta Francesco in Kurdistan. Anche se è tutto finito, nessuno si allontana e tutti continuano a seguire sui maxischermi la vettura blindata del Papa che esce infine da Qaraqosh. Solo a questo punto le migliaia di persone si mettono in marcia per tornare a casa a piedi. I genitori portano in braccio i figli più piccoli addormentati, stremati dalla fatica. I più grandi non sono affatto stanchi e continuano ad agitare le bandierine dell’Iraq e del Vaticano. Tutti sorridono. Qualcuno canticchia ancora la colonna sonora della mattinata: «Santo Padre, noi ti amiamo. Santo Padre, benvenuto. As-Salaam: la pace sia con te».

@LeoneGrotti

Foto in apertura: Ansa – Le altre foto © Tempi

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