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“Volersi bene finché va” è roba da gatti, non da uomini

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Il Signore onnipotente e misericordioso confermi il consenso che avete manifestato davanti alla Chiesa e vi ricolmi della sua benedizione. L’uomo non osi separare ciò che Dio unisce.

Nell’apparente aridità di questa formula è racchiusa la grazia del matrimonio come sacramento. Sono le parole che il sacerdote pronuncia dopo che gli sposi, con trepidazione, non di rado tra le lacrime, hanno detto, coscienti di aver proclamato davanti a tutti parole che hanno segnato indelebilmente la loro vita.

Ma c’è un Altro che ora interviene, in realtà l’attore principale che finora sembrava nascosto nell’ombra, Dio stesso, l’Eterno che può ogni cosa, che ama gli uomini, cui è chiesto di confermare il consenso. Non è un dialogo cerimonioso, arido, tra avvocati, ma la richiesta irrevocabile redatta nello stile severo e solenne della millenaria liturgia latina. Dio interviene, agisce per confermare, cum-firmare rendere solido, forte, l’amore che gli sposi hanno dichiarato l’uno all’altro. Dio permette ciò che l’uomo desidera e che da solo non avrebbe potuto raggiungere: che il loro amore duri per sempre. Da qui la sua benedizione che colma gli sposi, la grazia divina che sostiene la loro vita, che permette di sperimentare la sua misericordia, la sua capacità di non essere sconfitti, definiti dal nostro male, dalla nostra fragilità.

È stata generata una unità potenzialmente indistruttibile, capace di resistere ad ogni avversità. Tutto dipende dalla libertà dell’uomo: aderire quotidianamente a questa promessa, fedele al desiderio che l’ha generata, a quell’attrattiva che ha deposto come un seme splendente nella vita, oppure negarla, rigettarla, cedendo alla rassegnazione, rinnegando ciò che ha promesso, dimenticando ciò che è accaduto.

Questa promessa inevitabilmente porta con sé tutta una serie di caratteristiche che ne definiscono la profondità, senza non sarebbe un amore umano, vero.

L’amore umano è libero, non può subire imposizioni, convenienze, calcoli, condizioni. Occorrono due persone vive, mature, adulte, coscienti di quello che fanno: se sei ancora attaccato a tua madre, se per te il suo giudizio è ancora decisivo, non sei in grado di sposarti, non puoi servire due padroni. È unico, totalizzante, non può avere più partners, anche nascosti, virtuali. Chiede di durare per sempre. Implica il desiderio di avere figli. Sono tutti aspetti messi in luce in quello che viene comunemente detto “Il processetto”, l’esame dei fidanzati che il parroco fa prima delle nozze.

Si tratta di mettere in luce gli aspetti essenziali che fondano il matrimonio e che implicitamente sono contenuti nella promessa: una celebrazione liturgica che ha in sé le caratteristiche di un atto giuridico solenne come pochi; un atto pubblico, con testimoni, davanti ad un celebrante garante del rito che riveste anche un ruolo civile, con atti minuziosamente redatti e firmati che producono dei documenti ufficiali. Altro che sentimento!

Eppure basta che la promessa abbia delle riserve, delle forzature, dei punti d’ombra perché non si generi l’unione di una nuova realtà d’amore. Il matrimonio è nullo, non c’è. Dio non può operare perché manca la materia prima: un uomo e una donna che si amano. Si vogliono bene, nutrono simpatia, vogliono stare insieme, ma non si amano. E allora?

Nulla vieta che nel tempo quel germe imperfetto possa maturare verso una pienezza sempre più compiuta, definitiva, e cresca, imprevisto, un matrimonio bellissimo, vero. Facilmente invece finisce per esaurirsi del tutto. A quel punto, se non c’è mai stato matrimonio, unità, ognuno può ritenersi libero, ma per far questo occorre un altro atto giuridico, un processo che, esaminando i fatti, possa riconoscere, dichiarandolo ufficialmente, che quel matrimonio in realtà non c’è mai stato. Dunque la chiesa non può sciogliere i matrimoni, ma solo riconoscere quelli nulli. La necessità del processo di riconoscimento di nullità è nel rispetto della dignità del matrimonio: non si può cancellare un atto solenne, che pretendeva di essere irrevocabile, costato soldi e fatica, semplicemente facendo le valigie e andando via. Tutta la vita sociale si regge su atti giuridici, contratti che liberamente vengono presi e che chiedono di essere onorati: in commercio, al lavoro, tra stati e nazioni, anche solo per fare la spesa. La vita non è un gioco, un passatempo per borghesi. Il processo ha dei costi, certo, c’è gente che ci deve lavorare, ma sono costi equi e i tempi ragionevoli; anche il matrimonio ha dei costi, talvolta esagerati, li sì.

Chi ama fa sul serio, non per accontentare qualcuno, una moglie petulante o un prete assillante. Per obbedienza formale a leggi morali schiavizzanti. No, è per la nostra dignità. “Volersi bene finché va”, ma non c’è bisogno di essere uomini, bastano i gatti. Noi no, siamo uomini. È la nostra misura che dal più profondo aspira a quella profondità, definitività che l’amore porta con sé. Per noi innanzitutto.

Conosco Piergiorgio e Vera da una vita, da quando erano fidanzati, giovani fidanzati. Il loro matrimonio è stata una grande festa per tutta la squadra di rugby dove abbiamo giocato con grande passione per anni, finché il fisico, allegramente messo a dura prova, ce lo ha permesso. Una passione profonda come la vita, che non ti toglierai mai di dosso: se sei un rugbista lo sei per sempre. Piergiorgio lavora in giro per il mondo negli impianti petroliferi di una grande società. Sta fuori mesi in posti non proprio turistici.

Complice la distanza ha intessuto un rapporto vissuto con leggerezza, messo alle strette ha dovuto confessare. Vera, dolorosamente ferita, ha visto crescere in sé un baratro di sofferenza finché ha finito per staccarsi da Piergiorgio. Ne è nato un periodo turbolento, sofferto. Vera ha voluto riprendersi una vita spesa per un uomo che l’ha tradita concedendosi spassi e divertimenti troppo a lungo negati, non senza relazioni extraconiugali. Piergiorgio mi parlava dei vani tentativi di riavvicinamento, inutili; la sofferenza delle due figlie, già grandi. È un bell’uomo, di occasioni ne aveva quante ne voleva, le donne non rimanevano estranee al suo fascino rude e sincero. Ormai poteva anche lui prendersi tutte le libertà che voleva. Ma non bastava. Non era contento, non era in pace, dentro portava una tensione inquieta che non poteva far finta di non vedere: il desiderio di Vera, il suo amore per lei, la fedeltà a Vera era necessario alla sua dignità, per poter andare in giro a testa alta, soffrendo, ma da uomo. Non per far contento qualcuno, ma è la nostra statura umana che chiede, esige un amore di tale misura, definitivo, senza calcoli, convenienze e rassegnazioni: “Io ti amo, ti amo da morire! Qualunque cosa accada, qualunque sofferenza debba sopportare. Nulla e nessuno potrà strapparmi da questo amore”.

Nel tempo questo desiderio così vero e sofferto ha prevalso su tutto: Vera e Piergiorgio si sono riavvicinati. Lei lo ha seguito in Cina per alcune settimane, dove lavorava, poi a Hong Kong. Questa tempesta li ha uniti ancora di più, lieti di un amore più forte degli errori, dei sentimenti. La prima figlia, Lorenza si è sposata e ha già tre bellissimi figli, Elena, la prima è già un signorina, Francesca, la seconda, una biondina vispa e caparbia. L’ultimo, Matteo, un anno e mezzo, soprannominato il rugbista, calmo e imperturbabile, dalla stazza taurina, proprio come un rugbista, come il nonno che stravede per lui e la sua famiglia, una bella famiglia con cui stai volentieri.

Il loro amore, la loro famiglia non sarebbero state così belle se non avessero affrontato una tale prova.

Io prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia e amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.

Che bello, grande l’amore tra gli uomini!

Un amore che porte inscritto in sé una misura divina, infinita, che Dio compie intessendo storie tutte diverse una dall’altra, avventure fatte di imprevisti e cadute. Senza mai perdere la rotta. Senza mai rinunciare ad essere uomini.

Foto da Shutterstock

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