
Vivi. Né morti, né tantomeno sudditi

Nel leggere alcuni passaggi del Rapporto Censis pubblicato il 4 dicembre 2020, siamo sobbalzati sulla sedia. Nel comunicato stampa che lo accompagna, l’analisi è impietosa: «Spaventata, dolente, indecisa tra risentimento e speranza: ecco l’Italia nell’anno della paura nera. Il 73,4% degli italiani indica nella paura dell’ignoto e nell’ansia conseguente il sentimento prevalente. Che porta alla dicotomia ultimativa: meglio sudditi che morti».
L’immagine del suddito ci ha colpiti.
Il suddito è colui che rinuncia a vivere, in nome della tranquillità, della sicurezza e della paura della morte. Il suddito ritiene che la propria libertà, il proprio cuore che esprime un desiderio di pienezza e felicità, e la stessa propria vita non siano esigenze assolute. Anzi: il suddito ha paura di disturbare i sapienti, di compiere errori e mettere a repentaglio se stesso e gli altri, quando esercita le proprie scelte e le proprie decisioni. Meglio attendere istruzioni, e seguirle in nome del “benessere della collettività”.
Il potere (il sovrano) è ben felice di trovare di fronte a sé tali sudditi. Ritenendo di conoscere meglio di loro il bene e il male, e in ultima analisi i loro desideri, ben si presta all’arduo ruolo di “compiere scelte difficili”. Il sovrano solleva il suddito della rischiosa scelta di come impiegare la propria libertà, fornendo dettagliate istruzioni e indicazioni: le regole, che nella visione del sovrano (colto e istruito, a volte) salveranno il mondo. E così, procede con Dpcm onnicomprensivi e con Faq esplicative.
Una tale situazione è per noi intollerabile.
La nostra esperienza e il nostro cuore si ribellano a una alternativa stupida tra l’autoriduzione in schiavitù (la sudditanza) e il mettere in atto comportamenti irresponsabili e folli (la morte). Siamo consapevoli che il periodo storico che viviamo richieda prudenza e attenzione. Ma dentro una tale ragionevole attenzione, vogliamo essere liberi di seguire quello che rende la vita vera: il tempo speso con gli amici veri, l’esperienza educativa dei nostri figli, l’affetto per i nostri genitori, la possibilità di assistere un malato, la vista dalla cima di una montagna innevata, la Messa per celebrare il Natale.
Soprattutto, non tolleriamo che questa dimensione di pienezza della vita sia banalizzata da regolette scritte da un sovrano autodefinitosi illuminato, che forte della propria laurea in legge o in medicina ci voglia spiegare (o imporre!) come vivere il periodo delle feste, o come abbracciare un nostro caro alla fine del proprio cammino.
È possibile essere vivi, liberi e non sudditi anche in questo momento perché la libertà è la possibilità di aderire al vero riconosciuto e riconoscibile nella nostra vita, in tutte le circostanze. Un desiderio, un grido che resiste e che chiede un senso, appartiene alla nostra natura umana e si ridesta in tutta la sua portata quando troviamo davanti a noi una Presenza che risponde.
L’esperienza della pienezza che abbiamo sperimentato mettendoci in gioco dentro le questioni della vita (il lavoro, la famiglia, l’amicizia, le passioni) è troppo bella, e troppo forte, per arrendersi di fronte alla pandemia. E non può temere il tiranno, o aver paura della morte.
«Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta» (Purgatorio, I).
Alessandro, Gianpaolo, Matteo, Michele, Raffaele, Tommaso
Foto Ansa
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