Vivere al tempo del coronavirus

Di Marco De Petro
05 Maggio 2020
Lo statalismo a scapito dei corpi intermedi, della scuola libera, della sussidiarietà è sempre distributore di povertà e di clientelismo
Coronavirus

La società laicista e antireligiosa del secolo scorso è evoluta nella società post-religiosa di oggi, una società in cui i valori, privi di radicamento ontologico, sono in una crisi profonda, dove l’incertezza avvolge l’identità stessa dell’uomo. In questo contesto, l’unico grande valore che il coronavirus sembra aver fatto resuscitare nella coscienza di tante persone è la “solidarietà”. La solidarietà è di per sé un grande valore, eco della bontà di Dio, che avvicina a Cristo, ma non possiamo nasconderci che oggi, nel sentire collettivo, è soprattutto una solidarietà senza Dio, senza fondamento religioso: la solidarietà senza Dio è una solidarietà senza la persona, una solidarietà che rischia di cessare con il venir meno dell’emergenza. La storia ci insegna che l’idea di una solidarietà senza Dio porta ad una società moralista, giustizialista, ad uno stato ideologico ed etico, potenzialmente violento. Gli esempi non mancano. 

A questa idea di “solidarietà” sembra saldarsi il disegno di un nuovo e più forte statalismo. La motivazione è che la crisi ha mostrato l’esigenza di uno stato più forte, più coeso, con minori differenze al proprio interno. In realtà, ciò che è venuto a galla è anzitutto la scarsa autorevolezza della nostra classe politica e dirigente, maggioranza e opposizione compresa. 

Il centralismo e lo statalismo, a scapito delle autonomie, dei corpi intermedi, della scuola libera, della sanità libera, della sussidiarietà, della stessa libertà di religione che non può oltrepassare i doveri “civili” (cioè prima fedeli allo Stato e poi, se si vuole, a Dio, ma nel privato della propria coscienza), sono sempre distributori di povertà e di clientelismo. Sono un grande strumento di controllo sociale, di regolazione delle libertà, di diffusione dell’ideologia dominante. Uno strumento che oggi esercita il proprio potere non solo attraverso leggi e regolamenti, ma più subdolamente e incisivamente attraverso la tirannia del “politicamente corretto”, cioè l’obbligata adesione a giudizi e posizioni precostituite da chi detiene il potere della politica, della cultura e della comunicazione. Come quando, nei famosi anni ‘70, se non ti dichiaravi a priori progressista e antifascista, se non ti riparavi pubblicamente sotto l’ombrello dell’antifascismo, eri un retrogrado conservatore nemico della democrazia e del popolo. È ciò cui assistiamo oggi indifesi nei tanti talk-show televisivi e su tanta stampa quando si tenta di parlare ad esempio di solidarietà, di diritti delle donne, di aborto, di famiglia, di clima, di immigrazione, di economia, in termini diversi da quelli ammessi dall’ideologia dominante. Se non ti allinei, vieni moralmente estromesso dal consesso democratico. 

In questa situazione ciò che ci sta a cuore è difendere e affermare anzitutto la verità dell’umano nelle sue molteplici declinazioni. Qui viene avanti un’altra parte fondamentale ddi una lettera di don Luigi Giussani: “… il modo per costruire l’umanità nuova è la carità”. La carità non è spiritualismo o sentimentalismo, la carità è concezione nuova di sé e del rapporto con gli altri, è sguardo nuovo su tutto, è il cambiamento anzitutto di noi stessi. 

Sempre nei drammatici anni ’70, davanti all’iniziale sincero desiderio di cambiamento della società (finito poi nelle mani dell’ideologia partitica di sinistra e concluso, quando non nel terrorismo, in un bieco borghesismo), il Movimento di Cl non si è messo a fare analisi e ad elaborare controteorie sociopolitiche, ma ci ha detto che occorreva anzitutto cambiare noi stessi, il nostro cuore, e porre “fatti di vita nuova” nella società, porre esperienze di cambiamento in atto, porre la comunità cristiana come avvenimento e proposta di vita e di socialità nuova aperto a tutti. 

In quel percorso è maturato in noi il concetto del “più società, meno stato”; da qui abbiamo riscoperto e rilanciato, forse soli a quel tempo, la parola “sussidiarietà”, non per difendere un liberismo senza regole e spesso ottuso nella visione del mondo, ma per sostenere ciò che veniva dal basso, dalla vita, dalla libertà creativa e associativa delle persone, dall’esperienza nostra e di tutti. Qui sta potenzialmente lo snodo di un vero cambiamento.

Affermare l’umano, testimoniare una vita cambiata, porre fatti di vita che possano essere riferimento per chiunque cerchi sé stesso e la verità del vivere (v. profezia di Ratzinger del ‘69 sul futuro della Chiesa), sostenere con i fatti la sussidiarietà, credo sia ancora oggi, e forse soprattutto oggi, nella società globalizzata della solitudine e del non religioso, il primo modo di essere noi stessi e di dare il nostro contributo alla costruzione di un mondo migliore. E, se guardiamo intorno e dentro la nostra stessa esperienza, gli esempi in atto sono tanti e straordinari. È l’anticipo della resurrezione cristiana, è la vittoria della speranza.

Foto Ansa

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