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Non sopporto la parola “resilienza”. Non ce la posso fare. Credo di averla cominciata ad odiare ben prima del primo lockdown, quando cominciai ad avvertire il suo uso folle, assurdo nei discorsi comuni. Non già – che ne so – nella recensione del peraltro molto bello Wonder («un gran film resiliente») ma, ritrovarla sempre (sempre!) in contesti lontani, mi angustiava prima e poi mi faceva girare le palle. La trovavo nelle chiacchiere da prof («sai che secondo me Tizio invece ce la farà? È molto resiliente…», peccato che poi lo bocciammo); nei panegirici loffi sulla carta stampata («Giuseppe Conte, il resiliente»), nei romanzi di Chiara Gamberale «tra esperienze di vita e resilienza» e persino nell’olio detergente Ph5 che preserva la «resilienza della pelle».
Poi arrivò il lockdown e la parolina evocativa e magica si diffuse ormai senza controllo. Mi venne in mente il buon Orwell che raccontava che la forma più articolata del Potere non ti diceva più “devi” o “non devi” ma semp...
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