
Vincent Lambert. C’è chi ha avuto il coraggio di amare fino alla morte

Caro direttore, in questi giorni in cui si è consumata l’agonia – o la passione- fino alla morte, del caro Vincent Lambert, eco di quella di Eluana e, seppur in circostanze cliniche differenti, di Charlie Gard e Alfie Evans, sono stata dominata, come medico e uomo, da un potente sentimento di ingiustizia e preoccupazione.
Inutile, e forse retorico, domandarsi dove stia andando la pratica medica del prendersi cura: appaiono parole al vento quelle dell’antico Giuramento di Ippocrate (“Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio”), decantate tuttora e con solennità, il giorno della laurea davanti alla riverenza degli anziani medici togati e dei giovani neomedici, così come quelle dell’attuale giuramento professionale anteposto agli articoli del Codice deontologico dei medici chirurghi e odontoiatri (“giuro […] di non compiere mai atti finalizzati a provocare la morte”) che ogni medico è tenuto, e non arbitrariamente, a rispettare.
Eppure, accanto a questo inesorabile e calcolato cinismo di chi ha desiderato e chiesto ufficialmente la morte per fame e sete del caro Vincent; di chi ha legiferato, potendo avvalersi di soluzioni alternative; di chi ha prescritto la sospensione di tali supporti di base, potendo non prescrivere; di chi ha eseguito la prescrizione, potendo rifiutarsi; di chi ha taciuto al mondo, avendo il dovere di raccontare; di chi è venuto a conoscenza e non se ne è curato… accanto a queste conniventi volontà di far morire per fame e sete, cosa c’è? Dio cosa guarda?
C’è stato e c’è il tentativo di molti, a partire dai genitori e fratelli di Vincent fino a chi, gratuitamente, e per loro richiesta, con loro ha pregato e vegliato in questo tempo e da molto tempo, di una altrettanto inesorabile, non calcolata e non misurabile, volontà di affermazione della vita e del bene di cui essa consiste. Accanto a tale ostinazione di morte, dunque, c’è stato chi si è ostinato ad amare gratuitamente fino alla morte, davanti al mondo.
Essere amati fino alla morte, essere voluti e basta: questo è quello che ci rende felici e dà una ragione per vivere a noi e a tutti coloro che la cercano, perché si impone, agli occhi del mondo e a chi non distoglie lo sguardo, come il fuoco sotto la cenere di tutte le possibilità brutte della storia, come l’oro nel fango che possono essere le nostre giornate.
Essere voluti e basta. Oltre ogni aspettativa, ciascuno con le sue disabilità, – e chi non ne ha? -, e con i suoi talenti; ciascuno con i suoi difetti, storture e fissazioni, e, allo stesso tempo, con la sua grandezza, intelligenza e sensibilità; ciascuno con la sua incapacità e capacità di esserci e di capire l’altro che ci sta accanto – e quanto ci capiamo o ci sentiamo capiti gli uni dagli altri?
Dice Pegùy, prestando le parole a Dio ne I Misteri, a proposito dell’uomo santo:
Ne sono colpito io stesso, dice Dio, e tremo d’ammirazione
Davanti a tanto amore e sono vergognoso
Di essere tanto amato
[….]
Io resto tremante, dice Dio, io resto confuso da questa prova d’amore,
Di tante prove d’amore e non c’è che mio figlio
A non essere da meno di loro, perché per loro come loro ha sofferto.
Quello che resta di questa drammatica vicenda e sta, come “accetta nel tronco” per usare un’espressione cara alla poetessa Ada Negri, è questo amore più forte della morte che ha una personificazione precisa nella storia, a cui possiamo guardare e invitare a guardare. Per cui non si può non essere grati per la testimonianza di questi genitori e di tutti coloro che li hanno accompagnati in questa battaglia, alla stessa stregua delle suore che avevano accudito Eluana combattendo la loro buona battaglia, fino al giorno del suo sequestro. Vincent, come Eluana, ora è affidato a Chi ne ha cura definitivamente, e in questo, in qualche modo, restituito a chi lo ha amato.
Questo è quello che guarda Dio, quasi confuso da una tale prova d’amore di cui l’uomo, liberamente, può farsi capace. E che rende ragione del vivere e del prendersi cura: perché, se non ci fosse questo amore all’uomo, se non ci fosse chi ama l’uomo, che ragione ci sarebbe per curare? Questo è quello che voglio guardare anche io; anche io desidero questa confusione, questo stordimento per una sovrabbondanza d’affetto che, tuttavia, diventa chiarezza, perché getta luce e ri-testimonia nei fatti, quello che, da sempre, ci è stato consegnato nei testi, che pure, a partire da fatti simili, sono stati scritti. Mi riferisco a Evangelium Vitae così come alla Dichiarazione sull’eutanasia della Sacra congregazione per la dottrina della fede del 1980 o alla Carta del sanitario, in cui si evince che solo da un amore senza limite emerge la possibilità di prendersi cura del malato guaribile e dell’inguaribile, rispettando la sua vita, la sua dignità e il suo destino.
Allo stesso modo, il Codice deontologico descrive le condizioni senza cui non potrebbe non “essere esercitata”, ma “esistere” la professione medica, cioè quell’atto responsabile con cui il medico si prende in carico il bisogno del paziente di essere curato e accompagnato nella fatica della malattia, dentro un rapporto reciproco di fiducia.
Dunque, non si dà cura, se non c’è chi ama la vita: senza riconoscere questo mi domando come ci si possa alzare al mattino per andare in ospedale, domando e mi domando quale potrebbe essere lo scopo della professione.
E amare la vita – a volte, è vero – è duro come mordere un sasso: nessuno augura al proprio marito una vita da tetraplegico e in stato di veglia non responsiva. Eppure il sacrificio di chi è disposto a questo, anche nelle circostanze più difficili, riscatta anche la nostra inettitudine e ci sprona. Questa provocazione che faccio a me stessa e a chi vuol condividerla, da medico e da uomo, non ci restituisce Vincent, né restituisce il raziocinio a coloro che hanno perpetrato questo massacro, ma mi auguro che possa lavorare dentro la coscienza di tutti.
Di chi si assume il rischio della professione medica; di chi vive l’esperienza della malattia incurabile o curabile ma inguaribile; di chi scrive sui giornali raccontando frammenti di storie; di chi ha il potere di legiferare; di chi ha il potere di applicare la legge; di chi semplicemente ha la fortuna di vivere in salute, ma si sente interpellato dai fatti che accadono.
Perché non si confonda la richiesta di aiuto e condivisione insita nell’esperienza della malattia, magari drammaticamente posta, con la giustificazione pietistica di un atto eutanasico; perché non si assolutizzi la libertà del singolo, o di terzi, che chieda, per disperazione, la negazione della vita di cui nessuno è padrone e perché non si sradichi, in nome di essa, la natura della professione medica che, come recita il Codice, gode dei principi di “libertà, indipendenza, autonomia e responsabilità”; perché si costruiscano e si facciano conoscere ambiti di condivisione del bisogno e di carità; perché si contribuisca in ogni ambito della vita sociale a una cultura attenta alla persona, abbiente o bisognosa, sana o in un letto di ospedale. Perché ciascuno, nel suo ambito, personalmente, pubblicamente, discretamente, non si tiri indietro dal combattere questa buona battaglia che riguarda tutti.
Foto Ansa
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