Viagra Di Matteo. Così i vecchietti del Chelsea hanno battuto il Napoli

Di Emmanuele Michela
16 Marzo 2012
S'è presentato al campo d'allenamento il primo giorno, ha provato a fare il suo: «Dobbiamo tornare a divertirci». Umiltà d'abruzzese ereditata in famiglia, laboriosità svizzera imparata nella terra natale elvetica, Di Matteo ha ri-scommesso sui vecchietti della squadra, restituendo loro la fiducia nei propri mezzi.

A guardare i protagonisti della vittoria di ieri del Chelsea contro il Napoli, appare evidente una cosa: sono tutti della vecchia guardia. C’è Didier Drogba, che ieri ha aperto le marcature e sembrava indomabile, ben lontano dallo spettro che nei mesi scorsi doveva spesso accomodarsi in panchina. C’è John Terry, che contro i partenopei ha messo una pietra sopra le tante critiche di razzismo delle settimane scorse, e ha guidato sicuro e sereno la sua squadra alla vittoria, siglando anche la rete del 2-0. C’era Frank Lampard a giganteggiare tra gli avversari, a riprendersi le chiavi di un centrocampo che quest’anno tanto aveva sentito la sua mancanza. E poi Ashley Cole, Branislav Ivanovic, Michael Essien… Giocatori che vestono in Blues da diversi anni, che parevano finiti quando, fino a pochi giorni fa, a guidarli era Villas Boas: alcuni di loro, all’andata al San Paolo, erano addirittura finiti in panchina.

La vittoria di ieri è stata la prova di forza di una squadra che ha ritrovato la sua anima e, nella bolgia che era lo Stamford Bridge, ha letteralmente doppiato il Napoli: i Blues correvano il doppio, arrivavano primi su ogni pallone e, a parte il primo quarto d’ora concesso agli azzurri, per il resto hanno tenuto il pallino del gioco per tutta la partita. Dal canto suo, il Napoli ha mostrato tutta la sua immaturità, regalando la partita agli avversari: fa riflettere sentire alcuni giocatori, come Paolo Cannavaro, dire che escono dalla Champions «a testa alta». Come si fa a tenere la testa alta dopo la batosta di ieri sera? Dove sta l’orgoglio di una squadra che, vincendo 3-1, si è fatta rimontare e superare?

Ma la partita non l’ha persa il Napoli. L’ha vinta il Chelsea. E sopratutto l’ha vinta un italiano: Roberto Di Matteo. L’ex laziale si è seduto solo una settimana fa sulla panchina dei londinesi, ereditando da Villas Boas una formazione priva di idee, ma più di tutto sfiduciata nella sua indole. Lui non c’ha pensato due volte e, invece di arrischiarsi in esperimenti in salsa giovane, si è fidato di alcune garanzie.

A sentire i giornali, la squadra non era con lui: si diceva addirittura che la dirigenza avesse preso Eddie Newton, suo ex-compagno di squadra ai tempi del Chelsea di Zola e Vialli, per fare da ponte tra lui e il gruppo. Ma RDM, carattere schivo e silenzioso, se n’è fregato delle tante chiacchiere da spogliatoio, s’è tappato le orecchie per non sentire le continue voci di mercato su Guardiola, Mourinho e Benitez, e per non sentire le tante perplessità legate alla sua unica e mediocre esperienza da tecnico in Premier, al West Brom, terminata con un esonero. S’è presentato al campo d’allenamento il primo giorno, ha provato a fare il suo: «Dobbiamo tornare a divertirci». Umiltà d’abruzzese ereditata in famiglia, laboriosità svizzera imparata nella terra natale elvetica, Di Matteo ha ri-scommesso sui vecchietti della squadra, restituendo loro la fiducia nei propri mezzi.

E ieri pareva il più emozionato di tutti. L’elegante cappotto nero sembrava troppo abbondante per uno smilzo come lui, che pareva andare a combattere non soltanto contro gli uomini di Mazzarri: giocava contro tutti quelli che lo davano per spacciato, o che lo etichettavano già come “allenatore ad interim”. E ha fatto quasi tenerezza quando, al primo gol, ha rotto tutta la sua tensione in una esultanza sentitissima, tanto da rischiare di cadere. A fine partita, era più felice forse dei suoi stessi giocatori: è corso ad abbracciarli tutti, uno per uno. La vittoria era tutta sua: contro un Napoli che a lungo andare si è spento, il Chelsea è riuscito nell’impresa di ritrovare gol e carattere per recuperare un pesantissimo 3-1. E il merito è anche del suo giovane allenatore. Perché in Champions non basta un cuore partenopeo, ci vuole tutta l’umiltà di un giovane vice-allenatore mezzo svizzero mezzo abruzzese.

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