Viaggio a Kandahar

Di Donnini Debora
18 Ottobre 2001
L’ombra di una grata di stoffa si riflette sugli occhi chiari di Nafas, la giovane giornalista afgana rifugiata in Canada, che rientra nel suo Paese d’origine per salvare la sorella decisa a suicidarsi prima della prossima eclissi di sole, a causa delle crudeli condizioni di vita.

L’ombra di una grata di stoffa si riflette sugli occhi chiari di Nafas, la giovane giornalista afgana rifugiata in Canada, che rientra nel suo Paese d’origine per salvare la sorella decisa a suicidarsi prima della prossima eclissi di sole, a causa delle crudeli condizioni di vita. Con questa scena si apre “Viaggio a Kandahar”, il film del regista iraniano Mohsen Makhmalbaf, uscito venerdì nelle sale italiane. La pellicola, di grande interesse anche a causa della situazione internazionale, prende spunto da una storia vera: quella della stessa protagonista del film, Niloufar Pazira, che non fa l’attrice di professione, ma ha cercato più volte, senza successo, di rientrare in Afghanistan per tentare di salvare un’amica dalla disperazione. Il mondo che si apre davanti agli occhi di Nafas e degli spettatori è un Paese allo stremo: è un universo dove le donne senza volto, imprigionate nei burqa dai mille colori, i pesanti veli che coprono tutto il corpo e che rendono difficile persino la respirazione, non possono andare in giro senza un uomo della loro famiglia, non possono farsi visitare direttamente da un medico – ma solo dietro un telo con un buco ed un intermediario -, non possono andare a scuola. Fa tenerezza vedere queste donne che, nonostante la grande miseria e il velo, tentano ancora di truccarsi per conservare almeno una sensazione di femminilità in un universo di annientamento. Impressionanti, poi, le immagini degli uomini mutilati dalle mine che corrono con le loro grucce per accaparrarsi le gambe di manichini paracadutate dal cielo; delle bambine che imparano a non raccogliere le bambole che potrebbero esplodere; dei piccoli di sette, otto anni che ripetono, dondolandosi, i versetti della preghiera e che, su richiesta del mullah, gridano la definizione delle armi, spade o mitra che siano. Per loro frequentare le scuole dei talebani è una fortuna, soprattutto se le loro madri sono vedove e non hanno modo di dargli da mangiare. Nafas ha urgenza di recarsi il più in fretta possibile a Kandahar e racconta tutto ciò che vede ad un piccolo registratore tascabile. Affronta mille pericoli. Ma a mio parere “Viaggio a Kandahar” non è solo un film di denuncia su come vivono le donne afgane, ma anche una poesia scritta sotto il burqa. Una poesia composta camminando nel deserto della terra e dell’anima, in cerca di appigli, motivi, per convincere “la sorella” a non compiere quel gesto, nonostante la realtà circostante sembra non offrirne, soprattutto alle donne. Eppure Nafas ha scelto: ha lasciato il Canada ed è tornata in Afghanistan per sua sorella che anni prima, nel viaggio di fuga, non ha potuto seguirla perché mutilata da una mina. E Nafas fa tutto questo: «solo per te, sorella mia». E la speranza è che questo amore, capace di rischiare tutto, possa aprire uno spiraglio e una ragione per vivere.

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