
Vi sta bene Trump

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Da qualche tempo il giovane fidanzato di Bret Easton Ellis ha ricominciato a drogarsi. Esce di casa con i capelli scarmigliati, non si fa la barba, parla soltanto di complotti russi, è ossessionato dai videogiochi. Si è ridotto a una sinistra caricatura dell’elettore sdentato di Trump che vive nelle roulotte della rust belt, soltanto che è il compagno di un romanziere di fama planetaria che vive a Los Angeles, sguazza nel mondo di Hollywood e va alle feste organizzate dalla gente che piace. È lui stesso la gente che piace.
Una ricaduta nel vizio capita a tutti, si capisce, e specialmente a chi s’accoppia con un maestro del racconto del male, ma Ellis ha una diagnosi precisa per il morbo che affligge il partner: «La superiorità morale che ha preso e sta distruggendo, mangiando viva, la sinistra americana».
La malattia ha iniziato a manifestarsi potentemente nel momento esatto in cui Donald Trump è stato eletto presidente degli Stati Uniti, e l’epidemia si è diffusa in fretta nel mondo dello spettacolo, della televisione, fra le webstar, gli scrittori, gli artisti e i patroni delle arti. Le università hanno fornito immediatamente assistenza psicologica agli studenti debilitati, le improvvisate sessioni di terapia di gruppo si sono trasformate in seminari, i seminari in corsi e talvolta i corsi si sono trasformati in scuole, come la “resistance school” di Harvard, dove il professor Timothy McCarthy insegna ai rampolli dell’élite minacciata l’antica arte della resistenza. L’ormai codificata “sindrome da squilibrio di Trump” ha contagiato le celebrità mature che si erano fatte gli anticorpi ai tempi del Vietnam e i millennial che hanno voltato le spalle alle ideologie; per la medesima ragione, Barbra Streisand ha preso peso e Lena Dunham ha perso peso. Ellis invece ha perso la pazienza.
Qualche settimana fa la puntata del podcast che tiene si è trasformata in un’invettiva di trentacinque minuti contro la mentalità vittimista e paranoica che si è impossessata di un pezzo d’America e non accenna a retrocedere. «Ti può non piacere il fatto che Trump è stato eletto, certamente, e lo stesso puoi capire e alla fine accettare che questa volta è stato eletto. Oppure puoi avere un totale collasso mentale ed emotivo e lasciare che la presidenza di Trump ti definisca, il che mi sembra assurdo. Se ancora sei fuori di testa per Trump, probabilmente devi andare da uno psichiatra e non lasciare che l’uomo cattivo che è stato eletto provochi la tua autovittimizzazione. Così lo stai facendo vincere», ha detto Ellis, che ha bastonato Streisand e Dunham («state dando la colpa al presidente per le vostre nevrosi») e si è addirittura avventurato in una critica di Meryl Streep, che negli ultimi anni ha aggiunto la carica di coscienza civile a quella di diva assoluta del grande schermo.
Non è solo un’esagerazione
Alla cerimonia dei Golden Globe ha usato il discorso di premiazione per fare una geremiade antitrumpista: «Invece di parlare di tutti i registi con cui ha lavorato e che sono scomparsi negli ultimi due anni, Michael Cimino, Mike Nichols, Nora Ephron, oppure raccontare cos’ha significato interpretare Carrie Fisher in Cartoline dall’inferno, visto che Fisher era morta soltanto due settimane prima, Streep ha usato quel momento per un lamento contro Trump di dieci minuti sulla tv nazionale, invece di commemorare i suoi amici. Ha riaffermato la superiorità morale della sinistra e ha ignorato l’estetica in nome dell’ideologia».
Ellis è quanto più lontano da un ultrà di Trump si possa immaginare. Aveva studiato con scrupolo il personaggio quando ne ha fatto l’idolo di Patrick Bateman, il protagonista di American Psycho, pilastro del romanzo postmoderno dei primi anni Novanta. Bateman è un trader di Wall Street che di giorno svuota le tasche dei risparmiatori e di notte uccide e smembra sconosciute nei modi più truculenti senza uno scopo preciso, semplicemente assecondando la sua natura psicotica e allucinata. Assegnargli, nel contesto della trama, Trump come punto di riferimento ideale non ha l’aria di un segno di stima dello scrittore nei confronti del personaggio, quello vero.
Aveva fatto scalpore, durante la campagna elettorale, quando aveva riferito su Twitter di una cena fra iniziati di Hollywood che dietro promessa di anonimato avevano rivelato il loro sostegno per Trump. Era un cortocircuito dell’universo liberal che lo scrittore (a sua volta liberal) metteva a nudo con voluttà. Con altrettanta foga ora denuncia la malattia immaginaria che ha paralizzato il suo mondo più prossimo, a partire dal compagno depresso. A differenza di altri critici dell’affettazione vittimista, però, l’autore di Meno di zero non crede si tratti soltanto di un’esagerazione accidentale, dettata dall’urgenza di un momento politico unico e irripetibile, ma sia il punto tragico in cui i liberal raccolgono ciò che la loro ideologia ha seminato. Era inevitabile. E questa non è necessariamente una cattiva notizia.
Contro «il cucciolo di panda»
«Alcuni miei amici e conoscenti, incluso il mio ragazzo millennial con cui ho vissuto negli ultimi sette anni, stanno attraversando gli ultimi spasmi, spero le convulsioni mortali, di una specie di psicosi liberale che stava e sta ancora colpendo molti membri della sinistra. L’edificio abitato delle élite neoliberali, ossessionate dalla politica dell’identità è stato decostruito da entrambe le parti», ha detto Ellis.
È così che un movimento iniziato sventolando la bandiera della libertà di opinione ora agita quella della “superiorità morale”, invitando i suoi adepti a resistere: «Alcuni di noi si stanno chiedendo: resistere a cosa, esattamente? E chi ci impone di resistere? La gente che ha votato per il candidato che ha perso? Dovrei davvero ascoltarli? A cosa dovrei resistere? Di certo sto resistendo agli infantili collassi a cui assisto durante le cene, sui social, in televisione e troppo spesso anche in casa mia dopo la vittoria di Trump lo scorso novembre».
Non è la prima volta che Ellis aggredisce i dogmi del politicamente corretto, a partire dalla militanza gay. Nel 2013 ha preso spunto dal processo di canonizzazione mediatica celebrato per Jason Collins, giocatore di basket che ha dichiarato la sua omosessualità, per scrivere un’invettiva contro «l’uomo gay visto come elfo magico», una specie di «cucciolo di panda che deve essere onorato, riverito, consolato e reso infantile», nessuno può permettersi di contrastarlo o criticarlo senza essere ridotto a residuo di un totalitarismo oscurantista. Nemmeno i gay, testimoniava Ellis per esperienza diretta, possono permettersi di scherzare sull’omosessualità «senza essere puniti e accusati di odiare loro stessi». «La vera vergogna non è la battuta cruda, è il fatto che non è possibile fare la battuta», scriveva Ellis, notando che nella comunità arcobaleno quelli che non mettono la propria identità sessuale a servizio della lotta per La Causa, ovvero quelli che si limitano a essere omosessuali e basta, sono guardati come reietti e traditori: «Dio aiuti l’uomo gay che si dichiara e non vuole rappresentare, non vuole insegnare, non si sente parte dell’omogenea cultura gay e anzi la rigetta». Il romanziere ha un nome preciso per descrivere il fenomeno in atto: «Fascismo gay».
Ribelli di plastica
Ellis è diventato il più improbabile fra i contestatori del conformismo liberal, un ribelle in carne e ossa in un mondo di ribelli di plastica, quelli che affollano i suoi libri pieni di tormenti esistenziali e di intollerabile mediocrità. Di questi tempi per trovare critici del pensiero unico non bisogna cercare nei ranghi conservatori, ampiamente confinati nella riserva degli impresentabili, bug del sistema con i quali è necessario convivere, ma fra i liberal che hanno spezzato l’incantesimo della superiorità morale. Il 53enne che ha raccontato con libri, sceneggiature, articoli e saggi i drammi della condizione contemporanea, mettendoli per lo più sullo sfondo della più vacua e disperata delle città americane, Los Angeles, ha esplorato la cultura in cui è immerso arrivando a formulare una critica cosciente. Ha sempre coltivato il gusto dell’orrido e il fascino nichilista per la perversione nella sua carriera di autore, e forse proprio per questo ha sviluppato una repulsione profonda per ciò che conforma e sterilizza, imbriglia e incanala.
Il conformismo moralizzante e bigotto di un’altra epoca – l’epoca dei famosi valori – è semplicemente stato sostituito con un perbenismo uguale e contrario che idolatra la diversità, assolutizza le voglie dell’io, moltiplica i diritti e fa leggi per tutelare i capricci. È l’ideologia dei “safe space”, dell’appropriazione culturale, dei disinviti dalle università di accademici non allineati, dei manifesti per una nuova umanità digitale della Silicon Valley, dell’urlo “not my president” come posizione esistenziale: in realtà non stanno dicendo “non sei il mio presidente”, ma “non sei il presidente che il mio schema ideologico è pronto ad accettare”.
La repulsione antropologica per Trump che accomuna quelli dell’ambiente di Ellis ha fatto esplodere il suo disgusto per quelli che, in teoria, sarebbero i suoi simili. È diventato un difensore della libertà di pensiero contro le università che la contrabbandano per uniformità ideologica, ha perfino difeso il provocatore della alt right Milo Yiannopoulos, omosessuale e trumpista di origini britanniche che ha portato in giro per l’America il suo “tour del frocio pericoloso” e infine è stato scaricato anche dalle frange più estreme per via di un’intervista in cui, complice un editing furbetto, giustifica i rapporti sessuali con i minorenni. Quando hanno bandito Milo da Twitter, Ellis lo ha difeso per puro spirito liberale: «Preferisco che sia su Twitter Milo piuttosto che un’attrice di mezz’età che impazzisce per i troll».
Un mondo invivibile
Nella sua visione, Trump è quasi un male necessario, un amaro antidoto a una cultura del vittimismo e della suscettibilità che ha sfornato generazioni introflesse incapaci di affrontare l’altro. Si può dire, in un certo senso, che Ellis veda il presidente americano in modo igienico: «Il motivo per cui Trump ha vinto è la totale incapacità di stare di fronte a quel che non va – Trump ha devastato la identity politics. Ha eliminato tutto quello che la cultura autoritaria del politicamente corretto ha imposto durante gli anni di Obama e che sarebbe esplosa in un’altra èra Clinton. Ha distrutto tutto questo, perché nessuno avrebbe potuto vivere in un posto del genere».
Foto Ansa
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