
VERSO IL MEETING/6 Sussidiarietà fa 150
Che cos’è l’Italia? È «il bel paese ch’Appenin parte, il mar circonda e l’Alpe» per dirla alla Petrarca. O ancor più semplicemente, sulla scorta del verso dantesco, è «il bel paese là dove ‘l sì suona ». Certo è che, in questo 2011 che ha segnato il centocinquantesimo anniversario dell’Italia politica, forse poco s’è riflettuto, per paradosso, su quale sia stato il fattore che abbia permesso agli italiani di “fare” l’Italia. Tornando con la memoria al 1961, le premesse, ad essere benevoli, non erano delle migliori. Il re sabaudo, Vittorio Emanuele II, non fu nemmeno sfiorato dall’idea di farsi nominare primo re d’Italia. Il brigantaggio o il non expedit sono solo alcuni degli episodi culminanti di una arcigna refrattarietà popolare ad accettare l’espansionismo piemontese. Se c’è un merito che va riconosciuto alla mostra “150 anni di sussidiarietà”, che sarà inaugurata al Meeting di Rimini dal capo dello Stato Giorgio Napolitano, è di aver dato una picconata al luogo comune secondo cui, una volta impostata un’unità politica, l’unica operazione ancora necessaria fosse il suo travasamento nei cuori (recalcitranti) degli abitanti della Penisola. Ma così, partendo dai desideri di un’élite ancorché illuminata, non poteva funzionare. E, infatti, non ha funzionato. La mostra, voluta dalla Fondazione per la sussidiarietà di Giorgio Vittadini, va invece a indagare e raccontare cosa sia accaduto sul terreno e nelle vicende di tanti uomini comuni che, con il loro riunirsi in gruppi, mutue e circoli di soccorso, partendo da un’ispirazione laica o da una di fede, hanno riportato alla luce quel fattore d’unità già presente nel loro patrimonio culturale:«In una parola – spiega il giornalista e scrittore Gianluigi Da Rold, uno dei curatori dell’evento – potremmo chiamarlo realismo cristiano».
Dalle guerricciole al miracolo
L’angolazione è, dunque, originale: «Si guarda alla vicenda dal punto di vista della società, dei popoli che hanno incrociato il Risorgimento. L’intento è quello di illustrare quel “movimento dal basso” che ha portato un paese per secoli impegnato in guerricciole tra campanile a campanile a un’unità miracolosa». Ma, appunto, il suggerimento è quello di riflettere sul fatto che tale unità s’è resa possibile, pur tra mille contraddizioni, «perché, al fondo, esisteva già un comune humus culturale e d’appartenenza che gli italiani sentivano come unificante e questo humus era dato dalla tradizione e dell’appartenenza – anche solo, da parte laica, per ragioni anagrafiche – alla fede cristiana». Che gli italiani si sentissero tali anche prima dell’unità politica è anche uno dei punti fermi di un bel libro del cardinale Giacomo Biffi, L’unità d’Italia, centocinquant’anni: essi esistevano già prima del 1861, in quanto popolo cattolico. Solo che poi, come ogni vincolo d’unità che non si voglia solo teorizzato, esso andava riscoperto, rivissuto, rimesso alla prova. La mostra del Meeting è il racconto di questa riscoperta che diventa welfare, società, patria. Il percorso della mostra fissa quattro periodi chiave. La formazione dello Stato (1861-1915), il periodo tra le due guerre (1915-1945), la Costituente (1945-1948), il boom economico (1945-63). «Ma s’arriva a parlare fin dei giorni nostri – dice Da Rold –, analizzando quali siano le ragioni dell’attuale crisi e suggerendo quali possano essere le modalità – ideali prima che economiche e istituzionali – per intervenire nel contingente senza perdere la lezione del passato». Il tutto passando attraverso contributi iconografici, letterari, filmati dell’istituto Luce e il lavoro di un’equipe di esperti cui si sono aggregati centinaia – non per modo di dire – studenti universitari, «i veri protagonisti della mostra – segnala Da Rold – che, lavorando sugli spunti degli accademici, hanno avuto l’occasione di scoprire aspetti della storia del paese che, purtroppo, non si studiano più sui banchi di scuola o nelle aule universitarie».
Carne, frigoriferi, tv e Cinquecento
Come, ad esempio, quel curioso episodio capitato nel marzo del 1861 quando il ministro degli Interni, Marco Minghetti, presentò al parlamento un modello di Stato che oggi definiremmo “federalista”: «Era basato sul modello delle amministrazioni comunali inglesi, senza prefetti, e lasciava ampia autonomia alle regioni. Allo Stato erano affidate solo alcune competenze come la difesa o i trasporti, ma il resto andava nella direzione di valorizzare le tradizioni locali». Accadde poi, però, che la morte di Cavour e lo scoppiare del brigantaggio obbligarono a riportare tutto nell’alveo del sistema centrale: furono istituiti i prefetti, si applicò il sistema centralizzato delle provincie piemontesi su tutto il territorio nazionale e, «anziché lo Stato “inglese”, l’Italia assunse le fattezze dello Stato napoleonico». Quegli anni, che pure sono attraversati dalla “questione romana” e dalle baruffe tra cattolici e risorgimentali, «sono però anche gli anni dove attecchiscono opere che, appunto, dal basso, faranno l’Italia». Proprio nel Piemonte sabaudo nasceranno esperienze in cui il richiamo alla tradizione cattolica è esplicito: «Don Bosco, Faà di Bruno, Cottolengo, per citare solo i più noti. Insomma, i cattolici – e dire cattolici, allora, significava dire italiani – realizzano migliaia di opere educative e sociali nei campi dell’assistenza e della formazione.
La nascita dell’Opera sociale dei Congressi nel 1874 sarà l’emblema di questo movimento che poi con Toniolo, Tovini, Albertario si farà sempre più capillare, entrando in tutti gli ambiti sociali. E di lì, diverrà politico, e siamo ormai al Novecento, coi vari Sturzo, Meda, Murri che, con diverse sensibilità, aiuteranno a superare le incomprensioni risorgimentali portando a un periodo di relativa pace sociale con Giolitti». Il periodo tra i due conflitti sarà «la notte della politica e della sussidiarietà» dice Da Rold. «Prima una classe dirigente e alcune isolate frange ci trascineranno in una guerra che né Giolitti né il popolo cattolico e socialista volevano». Poi, con l’avvento del fascismo e il secondo conflitto mondiale, «quell’Italia popolare, contadina e artigiana parrà scomparire. Ma solo all’apparenza, perché, anche in quel periodo, nasceranno opere come l’Università Cattolica di Milano e migliaia d’altre, attente ai bisogni degli ex combattenti, delle vedove, degli orfani». Insomma, ogni volta che un evento superiore sembra mettere in ombra la silenziosa ma solerte Italia popolare e sussidiaria, essa poi torna a riemergere. «Come, infatti, poi avvenne nell’immediato dopoguerra quando il paese, uscito distrutto e umiliato da un trattato di pace mortificante, seppe riprendersi, grazie certamente ad aiuti e scelte politiche atlantiche, ma non solo».
Sono gli anni in cui l’Italia inizia a crescere a livelli sbalorditivi. Sono gli anni in cui sulla tavola arriva la carne, nelle case i frigoriferi e la televisione, per strada circolano le Cinquecento. E personaggi come Valletta, Mattei, Olivetti, Sinigallia erano conosciuti in tutto il mondo. «La mostra vuole guardare a quegli anni senza retorica. Perché è vero che quei repentini cambiamenti nei consumi portarono alla modificazione dei costumi ed è altrettanto vero lì si allargò il divario tra il Nord e il Sud del paese, tuttavia sono anche gli anni in cui emerse la forza di un paese che voleva farcela, in cui l’ambito familiare, l’amore per il lavoro, il desiderio di rinascere furono tanto tenaci da farci crescere al ritmo del 7 per cento l’anno». «Malgrado tutti i suoi rovesci e le sue contraddizioni, l’Italia c’è sempre stata. Prima del welfare state, è nato il welfare fatto dagli italiani. Nelle fabbriche dove, come gli operai della Breda di Milano, ci si autotassava per aiutare chi era in difficoltà, o nelle campagne dove nascevano le casse rurali per liberare i contadini dagli usurai. La migliore rappresentazione dell’Italia è quella che raccontano tutte le sue città: una cattedrale al centro e la città che si estende intorno, dove all’interno dei suoi vicoli crescono, s’ingegnano, si sviluppano mille attività. Oggi la crisi la riusciremo ad affrontare non con una teoria elaborata a tavolino, ma se torneremo ad essere fedeli a quella che è la nostra storia».
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