Verratti, il PSG, e la crisi del calcio italiano. «Poco spazio ai giovani, è un problema culturale»

Di Emmanuele Michela
10 Luglio 2012
Intervista a Filippo Galli, responsabile del settore giovanile del Milan: «Da noi potrebbe esistere un club giovane come l'Arsenal? Dobbiamo imparare a investire, ci mancano le squadre "B" o i club satellite».

La cocente sconfitta in finale contro la Spagna, le difficoltà dei nostri club in Europa e, in ultimo, la sempre più prossima cessione di un talento in erba come Verratti ad un club straniero. Fatti che accendono costantemente i riflettori sui nostri settori giovanili, con reazioni sempre unanimi: in Italia dobbiamo valorizzare i vivai. Anche ieri dalle colonne del Corriere della Sera c’hanno pensato l’ex-tecnico di Milan e Real Arrigo Sacchi (che è coordinatore anche dei settori giovanili della Nazionale italiana) e Mario Sconcerti a mettere in luce i tanti punti dove il calcio giovanile italiano deve crescere. Ma è davvero così? Tempi.it ha voluto intervistare Filippo Galli, bandiera del Milan degli anni Ottanta e Novanta e attuale responsabile tecnico del settore giovanile rossonero.

Galli, l’Italia perde un altro giovane interessante e subito scattano le analisi sui talenti in erba nel nostro calcio. Davvero c’è così poco spazio per loro?
È vero, ma credo che il problema sia di mentalità generale. Faccio un esempio, l’Arsenal: è una squadra dalla media età bassissima, e dà tantissimo spazio ai giovani, nonostante questo l’abbia fatta vincere pochissimo negli ultimi anni. Eppure ha lo stadio pieno, l’entusiasmo dei tifosi è sempre grande e il club riesce comunque ad essere sempre competitivo… Se una squadra così giocasse in Italia, cosa si direbbe? Sarebbe impensabile. Ci vuole un cambio di mentalità: tutti dobbiamo capire che in questo momento il nostro calcio non può essere al top, perché ha bisogno di alcuni ridimensionamenti a livello economico-finanziario. Dobbiamo saper investire, e dalla base: far crescere i giovani e permettergli di fare esperienze che gli permettano di essere poi protagonisti con la prima squadra.

A proposito di prime squadre, perché questi talenti fanno tanta fatica nel passare dalle squadre primavera al professionismo?
Il problema principale è che non esistono squadre “B”, o i club non hanno società satellite dove poter valorizzare i ragazzi una volta che questi hanno finito il loro percorso con la primavera, dato che i campionati giovanili non sono in grado di preparare ora in assoluto al professionismo. La questione sta nell’organizzazione dei campionati: serve una volontà comune tra tutti gli organismi del calcio perché ai ragazzi venga dato più spazio. Se così si facesse, sono certo che tutto il movimento e tutti i club riuscirebbero a trarne vantaggio.

E a livello di strutture e investimenti come siamo messi in Italia? Nell’intervista di ieri Sacchi fa un confronto con gli altri Paesi decisamente ingeneroso per noi. Cosa ci manca?
Il modello da imitare è quello della Juve: è un calcio che va verso il futuro, sempre più simile a quello dei grandi club europei. La squadra bianconera ha un impianto sportivo di sua proprietà, ha iniziato ad inserire in questo una scuola… Bisogna dare la possibilità ai giovani di studiare. Questo sport tiene i ragazzi impegnatissimi: già a 15 anni per qualcuno iniziano gli impegni con le nazionali Under 15, il tempo da dedicare ai libri è quindi poco. Se non c’è collaborazione con le scuole diventa tutto più difficile e poco funzionale alla crescita di questi ragazzi.

Nell’articolo invece di Sconcerti la questione viene ribaltata: il problema delle giovanili italiane sono le troppe pressioni che questi ragazzi ricevono fin da piccoli, da società e famiglia. «Finita la strada, l’oratorio, finito l’estro individuale, finita la coscienza critica, la selezione naturale, finita la libertà di correre dietro un pallone perché a otto anni c’è già chi ti chiede, t’impone, di uniformarti». È d’accordo?
Da una parte Sconcerti può avere ragione, ma si riferisce ad un problema più generale legato a tutti i giovani, non soltanto nel calcio. C’è meno possibilità per i ragazzi di fare attività motorie che qualche anno fa erano quotidiane, e che si rivelavano molto importanti per la crescita psico-motoria dei ragazzi. Se non troviamo spazio nelle scuole o nelle società sportive per far fare sport ai ragazzi, allora questi ne risentono sul piano della crescita fisica e umana. Ma non si può dire che questo problema si ripercuota sulla mancanza di talenti nel calcio italiano.

Però non si può negare che tante volte ci sono troppe pressioni intorno a questi ragazzi. Specie da parte delle famiglie.
Certo, ma è un problema culturale. I genitori mettono sui figli insistenze e aspettative che spesso non vengono realizzate. Questo perché, attraverso il calcio, qualche genitore spera di avere un riscatto sociale. Si cade così nella tendenza di vivere questo sport non più come un gioco. Però bisogna essere chiari: nelle scuole calcio questo aspetto non viene assolutamente meno. Non è vero che i ragazzi nelle nostre società sono inquadrati, anzi, noi vogliamo proprio che siano liberi di manifestare il loro estro. Sicuramente c’è poi un problema culturale, legato a tutte le componenti che agiscono sul calcio: i genitori, gli istruttori… Ecco, per esempio noi puntiamo tanto sulla preparazione dei nostri istruttori, non soltanto a livello tecnico-tattico, ma anche psico-pedagogico, per migliorare il loro rapportarsi coi ragazzi. Prima di insegnare al bambino devi saper arrivare a lui. Questo è fondamentale.

Come reagiscono i ragazzi quando avvertono queste pressioni su di sé?
Loro sono quelli che soffrono di più per queste situazioni. C’è chi le subisce appieno, chi cerca di reagire… dipende dal carattere. Per i ragazzi il calcio vuole rimanere un divertimento, mentre per alcuni dei loro genitori no. Però, ripeto, è una questione culturale: se un padre e una madre non capiscono che su un milione di giovani che fanno calcio solo una piccolissima parte diventa poi professionista, allora tutto si fa più complicato.

È impossibile sicuramente trovare una regola aurea, ma quali accorgimenti bisogna seguire perché il calcio continui ad essere strumento di crescita umana e sportiva di un bambino?
Tutti noi che viviamo questo sport dobbiamo guardarlo come momento di crescita e al tempo stesso come espressione ludica. È vero, il Milan ad esempio è una società professionistica, e già a partire da 14-15 anni cerchiamo di dare un taglio più professionale, impegnandosi a far emergere il loro talento. Però abbiamo sempre l’obbiettivo di far crescere i ragazzi con principi sani, e senza tagliar fuori le famiglie. Se c’è un problema, è di tutti: la scorsa settimana abbiamo preso un ragazzino di 14 anni e c’erano già le prime interviste fuori dalla sede del Milan. Capisci, questo è sbagliato, ma è dovuto ad un approccio errato di tante componenti a questo sport.

@LeleMichela

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