
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi?
Ecco il testo di una mia lettera che ho inviato a Umberto Galimberti, filosofo che collabora con il gruppo editoriale Repubblica-L’espresso e, in particolare, con l’inserto D – La Repubblica delle donne.
«Secondo Umberto Galimberti la religione è una specie di bella allucinazione che ha funzione puramente consolatoria. “Mi chiedo se la funzione consolatoria che ancora affidiamo ad una espressione tanto primitiva dell’uomo, generatrice di divisione e guerre (lo vediamo soprattutto in questi giorni), non potrà in futuro essere meglio esplicata da qualche suo moderno surrogato. Certo la grossa differenza fra la religione e la droga è che la seconda nuoce gravemente alla salute mentre la prima è innocua”. Ma se in futuro venisse sintetizzata una super-droga perfettamente salubre che non crea dipendenza e assuefazione, lei che obiezioni opporrebbe alla sua libera commercializzazione? Certo si potrebbe ancora obiettare che è immorale fuggire dalla realtà alterando la coscienza con una sostanza chimica. Ma se la coscienza svela che la realtà è il piano dell’insignificanza (termine a lei caro), non vedo in quale maniera sarebbe immorale rinunciare alla coscienza della realtà, questa spietata matrigna, almeno nel tempo libero. (…) Lei, non solo queste ragioni non le avrebbe, ma fra gli untori delle moderne epidemie globali della depressione e della tossicodipendenza ci siete proprio voi, gli infaticabili proclamatori della morte di Dio e dell’inesistenza del paradiso. Infatti l’unica definitiva delegittimazione del paradiso artificiale è la prova dell’esistenza del paradiso reale. Un paradiso di cui già ora sia possibile sperimentare delle anticipazioni».
Ipse dixit
Riporto stralci della risposta che mi è stata data dal medesimo Galimberti.
«Tra i mezzi potenti della simbolica religiosa c’è che la vita umana ha un “senso” dove alla fine si adempie quel che all’inizio era stato annunciato. Quando è iscritto in un disegno (di salvezza), il tempo non è più un’insignificante successione di giorni, ma, accadendo in vista di un “fine”, è portatore di un “senso” e, in quanto portatore di un senso, è “storia”. Noi oggi non viviamo più nella storia… Non si può infatti parlare di “senso” di fronte a un processo evolutivo che si definisce tale solo in riferimento agli stadi precedenti, senza alcuna prospettiva rivolta, non dico a un “regno dei fini”, come chiedeva Kant, ma almeno a un’orizzonte di significato che non sia il puro e semplice sviluppo tecnico. A questo punto è gioco forza congedarsi dalla categoria del “senso” perché tentare di conservarla, come fanno gli uomini di religione nel “mistero” significa dichiararla inconoscibile, mentre tentare di sostituirla, come fanno gli scienziati con il fascino dello “sviluppo”, che ha preso il posto lasciato vuoto dal progetto divino, significa dichiarare che non c’è nessun senso che sia davvero reperibile. (…) In entrambi i casi è l’esperienza del negativo a promuovere la domanda intorno al “senso”, che dunque ha una matrice del tutto antropologica. Essa nasconde il rifiuto da parte dell’uomo dell’esperienza del dolore, che gli antichi Greci accettavano come componente imprescindibile della vita, mentre i seguaci della tradizione giudaico-cristiana rifiutano o accettano solo se in prospettiva c’è una compensazione in paradiso. La ricerca del paradiso, artificiale o soprannaturale che sia, è la prova provata che la nostra vita non ci appare davvero piena di senso».
Il dibattito è aperto
A seguito del botta e risposta ho ricevuto innumerevoli lettere dai dei lettori di D. Ne riporto alcune, fra le più significative.
«L’evasione dalla realtà (la realtà empiricamente osservabile) è il vero peccato originale. Sia la droga che la religione sono evasioni dalla realtà (…) Ti manca il senso di questa vita? Trovatelo tu, qui in terra, nel corso della tua vita. (…) Provi dolore e sofferenza? Cerca di eliminarli, ma qui sulla terra. Non piagarti alla logica della sopportazione del dolore in terra in vista di un’altra, futura o artificiale, felicità». (Stefano M.)
«Dell’ultima frase della sua lettera non riesco proprio a capirne il significato. Dio è un’invenzione dell’uomo per dare un senso alla propria esistenza; persone colte come lei lo dovrebbero sapere benissimo. Io credo che il mondo non ha bisogno di dogmi, ma ha bisogno di libera ricerca in tutti i campi del sapere». (Bruno B.)
«Dio è morto, Gioia. Ma io mi sento meglio. (…) Quali sono le sue anticipazioni del paradiso? Valori, piaceri o storie?». (Ivan M.)
«Purtroppo un pianeta non basta a quella autentica insensatezza che sono i concetti d’eternità e di infinito. Un nostro handicap specifico. (…) Non ha senso, è il caso di dirlo, porci domande che esulano dalla nostra competenza. Come non se le pone l’infinita serie di esseri che condividono con noi questo mondo e, umilmente, portano avanti il loro scibile, animale, vegetale o minerale che sia, foss’anco all’estinzione, se necessaria. Come sembra». (Attilio d. G.)
«Ecco, credo che il senso della vita sia una cosa molto vicina all’uomo che si spinge nella sua interiorità, nella sua parte più profonda. (…) Credo che quello che vi sia dentro l’anima di ogni persona e l’infinito del cielo, le onde del mare, il tramonto del sole siano alla fine la stessa cosa». (Fabio V.)
«Bellezza. È quel che si oppone alla morte è la gioia che rinasce ad ogni aurora è la speranza di essere ascoltati è tutto il mare dentro la conchiglia». (Vittorio F.)
Letture ad hoc
Oltre a queste opinioni, alcuni dei lettori di D con cui sono entrata in contatto mi hanno proposto la lettura di brani, a loro modo di vedere, significativi e inerenti al dibattito.
Il primo è un brano di Aldous Huxley tratto da Le porte della percezione, 1954:
«Che l’umanità in genere sarà mai in grado di fare a meno dei paradisi artificiali, sembra molto improbabile. La maggior parte degli uomini e delle donne conduce una vita, nella peggiore delle ipotesi così penosa, nella migliore così monotona, povera e limitata, che il desiderio di evadere, la smania di trascendere se stessi, sia pure per qualche momento, è ed è sempre stato; sono dei principali bisogni dell’anima. “L’arte e la religione, i carnevali e i saturnali, la danza e l’oratoria sono serviti tutti”, come disse H. G. Wells, da Brecce nel Muro. E per l’uso privato e quotidiano vi sono sempre stati gli stupefacenti chimici. (…) Il bisogno di trascendere la personalità cosciente dell’io, come ho detto, è un’inclinazione principale dell’anima. Quando per qualunque ragione, gli uomini e le donne mancano di trascendere se stessi con l’adorazione, le opere buone e gli esercizi spirituali, sono indotti a ricorrere ai surrogati chimici delle religioni».
Il secondo passo è la seconda parte di un brano di Fernando Pessoa.
«Ma il padrone della Tabaccheria si è fatto sulla porta e v’è rimasto. Lo guardo con il disagio che dà la testa piegata a metà e col disagio dell’anima che sta intuendo Lui morirà ed io morirò. Lui lascerà l’insegna ed io lascerò dei versi. Ad un certo momento morirà anche l’insegna e anche i versi. Poi morirà la strada dove fu l’insegna e la lingua in cui furono scritti i versi. Infine morirà il pianeta che gira in cui tutto ciò accadde. In altri satelliti di altri sistemi, qualcosa di simile alla gente, continuerà a fare cose simili a versi e a vivere sotto cose simili alle insegne. Sempre una cosa di fronte all’altra, sempre una cosa inutile quanto l’altra, sempre l’impossibile così stupido come il reale, sempre il mistero del fondo certo come il sonno del mistero della superficie, sempre questo o sempre un’altra cosa o né una cosa né l’altra».
Siate realisti: domandate l’impossibile
Come ai tempi in cui qualcuno incise sui muri del foro romano un asino in croce, oggi basta pronunciare in pubblico “Dio” e “paradiso” per sentirsi dare, metaforicamente, degli asini. Avendolo imprudentemente nominato, adesso mi tocca difendere questo “paradiso” dall’accusa di essere una comica fantasia da spot pubblicitario o un’allucinazione da drogati. E dal momento che non si può difendere il paradiso senza difendere la fede, tenterò una (molto indegna) “apologia della fede” simile a quelle che i primi cristiani, scherniti nel foro e buttati nel circo, scrivevano agli imperatori pagani. In effetti l’ateismo-agnosticismo contemporaneo è un nuovo paganesimo, però senza leggende né dei. Avendo ripudiato la speranza che i pagani antichi non poterono conoscere, e sperando di trovare il paradiso nel divertimento, i nuovi pagani sono molto più tristi dei già tristi pagani antichi. Tuttavia si credono euforici.
L’aiutino chimico
Il discorso non può che prendere l’avvio dalla lettera che ha suscitato tante reazioni. Innanzitutto devo chiarire un possibile malinteso: io non penso che la realtà sia (in termini leopardiani) una “spietata matrigna”. Quando suggerisco che fuggire lontano dalla “spietata matrigna” è lecito e necessario, e che a questo scopo la droga e la religione ottengono ottimi risultati, non dico il mio parere bensì il parere di moltissimi fra gli scrittori e gli artisti più influenti del ventesimo e ventunesimo secolo, tutti devoti al culto della sostanza erogatrice d’ispirazione ed estasi. Da Huxley il quale, negli anni Cinquanta, faceva l’apologia dei “surrogati chimici delle religioni” che “allargano la coscienza” (parola d’ordine del Sessantotto) a Vasco Rossi il quale, in questi giorni, si è lasciato scappare che gli spinelli non sono poi tanto male, gli esempi sarebbero troppi per farceli stare anche in una intera copia di questo giornale. Scopo della mia provocazione era costringere Galimberti ad ammettere che, sebbene lui l’apologia della droga non la farebbe neppure sotto tortura, tuttavia è implicita nel suo pensiero. Non si scappa: se la realtà non ha senso, non ha neppure senso non drogarsi. Galimberti ha svicolato affermando che bisogna sopportare stoicamente, come gli antichi greci, la dolorosa insensatezza. Ma ce li vedete voi i ragazzini che vanno al concerto di Vasco Rossi rifiutare stoicamente lo spinello consolatore dopo avere letto Galimberti? Ce li vedete voi i lettori più sensibili di Repubblica sopportare il pensiero della “insignificanza dell’esistere” propagandata dal loro filosofo di fiducia (cfr. U. Galimberti, “La vera sofferenza mentale è il deserto dell’anima”, Repubblica, 1111) senza qualche aiutino chimico, illegale o legale (alcol o antidepressivo)? Io no.
La pretesa di un avvenimento
L’affermazione di Huxley merita maggiore attenzione. Che la droga sia “surrogato” della religione in parte è vero e in parte è falso. È vero nel senso che la droga è un ottimo anestetico del terrificante pensiero della morte senza resurrezione che tormenta l’ateo (parola dell’atea Ines Testoni, allieva del nichilista Severino: cfr. I. Testoni, Psicologia del nichilismo. La tossicodipendenza come rimedio, Franco Angeli, Milano 1997). Non a caso in Occidente si rileva una precisa correlazione storica fra la progressiva scristianizzazione e il progressivo incremento del mercato della droga, che aprì i battenti, col fumo d’oppio, proprio nel diciottesimo secolo dell’illuminismo ateo (cfr. E. Renda, Droga. Immaginario e realtà, Armando, Roma 1999). È falso perché, se la droga avanza dove la religione recede, questo non significa che a sua volta la religione è un surrogato della droga. Che la religione sia una droga-non-chimica è esattamente il parere di Marx, Huxley, Galimberti e di quel lettore che, esprimendo un parere diffuso, scrive che “sia la droga che la religione sono evasioni dalla realtà”. In effetti ci sono delle religioni che contemplano l’uso sacrale della droga (più numerose di quante ne immaginate) e delle religioni che, pur non contemplandolo, possono essere considerate delle forme di “evasione dalla realtà”. Ebbene il cristianesimo non solo non appartiene a nessuna di queste due categorie, ma si pretende la religione più realista del mondo. Anzi pretende di non essere una religione, ma un avvenimento. Un avvenimento che risponde a tutte le esigenze dell’uomo reale.
Il piacere di un caffé…
Ma per vedere in quale maniera il cristianesimo risponde alle esigenze reali dell’uomo, occorre riconoscere queste esigenze. Sarebbe stupido rispondere ad una domanda che non si pone. E il problema dell’uomo moderno, mi sembra, non è tanto l’odio preconcetto per la risposta cristiana, ma l’incapacità di riconoscere in se stesso l’urgenza di una domanda. La domanda di un significato per la sua vita. Il rifiuto da parte di Galimberti della categoria stessa del significato come di un retaggio giudaico-cristiano è solo un gioco di prestigio, un trucco disonesto, uno scherzo mortale. Come a dire: se muoio di sete non cerco l’acqua ma cerco di liberarmi della percezione della sete… così crepo contento.
L’esatto significato delle parole “senso” e “significato” (passi il gioco di parole) è molto più concreto di una concezione giudaico-cristiana della storia o di un kantiano “regno dei fini” che nessuno ha mai visto. Il “significato” è innanzitutto l’utilità per me di una cosa. Ad esempio il significato del bicchiere è di farmi bere un liquido, il significato del liquido è idratarmi, il significato dell’idratazione è la mia sopravvivenza. E la mia sopravvivenza a che mi serve? Prima di naufragare in speculazioni astratte, cerchiamo di essere elementari come i sensisti del diciottesimo secolo, i quali dicevano: l’attitudine fondamentale dell’uomo è quella di cercare il piacere e fuggire il dolore. Credo che tutti, credenti o atei, potremmo concordare sul fatto che il significato della nostra sopravvivenza è innanzitutto il nostro proprio piacere (considerando che la stessa sopravvivenza in buona salute è più piacevole dell’agonia e della morte). Quindi anche le cose che rispondono semplicemente a dei bisogni fisici, direttamente o indirettamente servono al nostro piacere. E per quanto varie e numerose siano le forme e le gradazioni del piacere, in ogni caso non c’è piacere che, per quanto piccolo, sia disprezzabile. Quindi non si può dire che la realtà è insignificante se non a costo di negare che perfino un caffè, sorbito magari proprio mentre tale “insignificanza” la presentiamo agli amici come la verità definitiva, è piacevole. E dal momento che nelle nostre giornate ci sono almeno una decina di piccoli-grandi piaceri oltre al caffè, dalle serate con gli amici alle buone letture, non possiamo dire che la vita è insignificante.
Il piacere
Dunque la realtà della vita non è l’insignificante, insensata matrigna di cui parla Galimberti. Ma paradossalmente questo non vuol dire che, viceversa, sia sensata. La realtà è posta in una penombra ambigua fra senso e nonsenso, come spiegherò ancora in termini sensisti. Che sia un cioccolatino o un mese di ferie, non c’è piacere che non finisca troppo in fretta, per i nostri gusti. Non bastasse, è opinione condivisa da tutti i più grandi poeti e da tutte le persone sensibili che neppure tutti i piaceri di questa terra tutti insieme in una volta ci basterebbero. Siamo tormentati da un desiderio che la realtà empiricamente osservabile si rifiuta di appagare totalmente. Prova ne sia il fatto che, non appena abbiamo tra le mani quella automobile, quella vacanza, quel successo professionale, quella donna o uomo tanto a lungo desiderati, dopo una breve euforia siamo di nuovo insoddisfatti e cominciamo a desiderare qualcos’altro, un’altra automobile, un altro viaggio, un altro successo, un altro amore… (anche se poi coleicolui che non ci procura più estasi è davvero la donnauomo della nostra vita, ma questo è un altro discorso…). Senza però trovare mai, nella successione degli oggetti di desiderio, un piacere sufficiente ad appagarci veramente. Noi infatti desideriamo la felicità, cioè l’infinito del piacere. Lo ha spiegato in maniera definitiva Giacomo Leopardi in un brano spesso citato dello Zibaldone:
«L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perché ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti 1. né per durata, 2. né per estensione. (…) Il detto desiderio del piacere non ha limiti per durata, perché, come ho detto non finisce se non coll’esistenza, e quindi l’uomo non esisterebbe se non provasse questo desiderio. Non ha limiti per estensione perché sostanziale in noi, non come desiderio di uno o più piaceri, ma come desiderio del piacere».
Lo zero divertito
Per i nichilisti come Leopardi l’evidenza di questa fatale insoddisfazione è l’argomento fondamentale del nichilismo, per gli uomini religiosi è la prova definitiva della fede. A voi la scelta. Quasi stesse rispondendo proprio all’ateo di Recanati, secoli prima il credente Dante Alighieri definiva con precisione la natura di questo piacere senza limiti né per durata né per estensione: “sommo piacer” è Dio (Dante, Paradiso XXXIII, 33). E dal momento che questo divino “sommo piacer” è in qualche maniera correlato al più infimo fra i piaceri – benché la distanza fra essi sia più vasta dell’universo intero – ebbene perfino la tazzina di caffè depone a favore di Dio. Similmente una sola goccia d’acqua nel deserto depone a favore dell’esistenza dell’acqua, anche se non basta a dissetare nessuno.
Al dramma dell’insoddisfazione, complementare ad esso, si somma il dramma del male fisico e morale. Il male morale: l’uomo non fa il bene che vuole ma il male che non vuole. Dovremmo essere tutti d’accordo sul fatto che questo bel pianeta è rovinato da malvagità e ingiustizie d’ogni tipo (non ripeterò la banale raccomandazione di dare un’occhiata ai giornali). E seppure dopo due secoli di illuminismo facciamo fatica ad ammetterlo, il male lo facciamo anche noi. Spesso lo facciamo anche alle persone che amiamo, anzi non siamo capaci di amarle… E allo stesso tempo sentiamo in noi la bruciante esigenza di un amore totale e incondizionato (infinito come Dio) che gli altri non possono darci. Il male fisico: l’uomo è sottomesso, come tutte le cose, alla legge della corruzione, da cui discendono il dolore e la morte. Come un lugubre gioco del domino, marciscono uno dopo l’altro gli uomini nel continuo rinnovarsi delle generazioni. Fino alla fine delle generazioni, delle civiltà e del pianeta Terra. L’universo intero corre verso l’entropia finale. Le malattie, le sofferenze fisiche, la fatica sono tutte conseguenze della fragilità del corpo votato alla morte. E quando riusciamo a tenere lontana ogni pena per un tempo sufficientemente lungo, la noia, senza più gli argini del dolore, tutto allaga di grigio che trascolora nel nero dell’angoscia («Quando il cielo basso e cupo pesa come un coperchio sullo spirito che geme in preda ad una lunga noia… l’Angoscia atroce, dispotica, pianta sul mio cranio chino il suo nero vessillo», Charles Baudelaire, Spleen). “La vita è una continua oscillazione dal dolore alla noia con qualche breve intervallo di piacere”, concludevano sconsolati, con parole simili, i nostri sensisti Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi.
Tuttavia neppure il male fisico e morale bastano a dare alla realtà la patente di “insignificanza” o, come si esprime Severino, di “nientità” (cfr. E. Severino, introduzione a I. Testoni, cit.). Se le cose vengono dal nulla e tornano al nulla, tuttavia adesso si distinguono nettamente dal nulla (e d’altra parte non si vede in quale maniera potrebbe il nulla crearle). La corruzione, come diceva S. Agostino, è possibile proprio in quanto le cose sono buone e integre; se non fossero integre o non fossero affatto, non corromperebbero neppure. Se i fiori nascessero già completamente appassiti non potrebbero appassire, e il loro marciume non ci farebbe tristi al pensiero della primavera defunta. Se nascessimo già vecchi non piangeremmo il progressivo sfiorire della giovinezza, e neppure il lifting avrebbe così tanto, patetico successo. Se non fossimo mai sani non aborriremmo le malattie, se non fossimo naturalmente orientati al bene non ci scandalizzeremmo del male, se non fossimo mai nati non ci lamenteremmo della morte. Il nostro inconscio, dice Freud, “si comporta come se noi fossimo immortali”. Freud non ha voluto capire che, se il nostro inconscio si comporta così, c’è una sola spiegazione convincente.
La corruzione, il dolore e la morte stanno dentro le cose ma è come se non facessero parte della loro natura autentica. Esattamente come il virus che uccide un corpo non fa parte del corpo. E non è ragionevole che un uomo si vanti della malattia che lo uccide, oppure la accetti, anziché mettersi a cercare chi lo possa guarire. “Ma no”, esclamano i Galimberti in coro, “non ha senso chiedere la salvezza: impariamo dagli animali che non la chiedono”. Chi desidera l’immortalità “si sente così importante da meritarsi, fra tutte le creature caduche di questa terra, l’immortalità” (U. Galimberti, risposta ai lettori, D, 212001). Ecco, la differenza fra quelli come me e tutti i Galimberti del mondo è proprio questa, che noi ci sentiamo molto più importanti dei vegetali e degli animali, delle verdure e delle carni, mentre i Galimberti invidiano la saggezza di quegli animali paghi soltanto di grufolare nel trogolo.
Sogno, droga e rock and roll
L’uomo, se è uomo e non suino o mollusco, la sua malattia non può né accettarla né rifiutarla: può solo desiderare di guarirne. La stragrande maggioranza degli uomini d’oggi rifiuta la malattia nel senso che si sforza di dimenticarla utilizzando tutti gli espedienti della distrazione organizzata, dal divertimento per non pensare a nulla, al lifting per non pensare alla decrepitezza, alla droga per non pensare alla morte (la stessa funzione i pagani antichi la attribuivano alle orge dionisiache, che risorgono oggi a Berlino con la “Love parade”). La droga è talmente seducente che anche le campagne terroristiche sulle infernali sofferenze della tossicodipendenza, nelle scuole e sui mass media, hanno l’effetto di incentivare il suo uso (dato assodato). Accanto a questa maggioranza che chiamo dei sognatori ordinari, c’è un’élite di individui intellettualmente più scaltri che si dividono in due categorie: i nichilisti e gli ottimisti. In polemica con i sognatori ordinari, i nichilisti si vantano di agonizzare sul letto della loro malattia terminale, che è la loro stessa vita, senza la morfina delle consolazioni e delle distrazioni (anche se in realtà a scrivere libri nichilisti si guadagnano un sacco di soldi, che è una gran bella consolazione). Gli ottimisti invece, per non ammettersi bisognosi di cure, la malattia la minimizzano: “in fondo le cause del dolore possono essere rimosse con un poco di impegno”, “in fondo basta raggiungere gli obiettivi giusti per sentirsi felici”, “in fondo bastano delle buone leggi e una polizia efficiente per arginare il male”, “in fondo si può invecchiare bene”, “perché prendercela con la morte se non ci accorgeremo neppure di essere morti”. Accanto ai sognatori, ai nichilisti e agli ottimisti resiste un piccolo manipolo di realisti: coloro che cercano la salvezza.
L’umanità vaga in un deserto assetato. Molti si volgono agli anestetici per non sentire la sete. Sono i sognatori ordinari. Alcuni negano di sentire la sete perché l’acqua, non potendosela fabbricare da soli, mette in discussione il dominio assoluto che pretendono di avere su se stessi e sul loro destino. Sono gli ottimisti. Altri invece la loro orgogliosa indipendenza da chi potrebbe dissetarli se la assicurano negando l’esistenza dell’acqua di cui non possono negare di avere un bisogno disperato. Sono i nichilisti. Altri ancora si volgono all’illusione dell’acqua, al falso infinito, al “sacramento di Satana” (Maritain) ossia alla droga. Sono gli artisti maledetti, la gioventù bruciata. Altri ancora l’acqua la cercano nelle profondità di se stessi, dove trovano le parvenze ammalianti, ma prive di realtà, di sorgenti d’acqua, terre fiorite, cieli infiniti. Sono i sognatori nobili. Altri invece il sogno di terre fiorite tentano di realizzarlo con la falsa acqua che si fabbricano da soli, producendo, invece che refrigerio, più arsura e più lutti. Sono i seguaci delle ideologie. Infine ci sono quelli che sfidano l’arsura del deserto per andare alla ricerca dell’acqua. Il loro peregrinare dura millenni. Stremati, si accasciano… “disperatamente bisognosi… della mano di uno straniero… in una terra disperata” (Jim Morrison, The End). Ebbene, lo straniero che porta l’acqua nel cavo della mano è arrivato.
Romeo e Giulietta
«Dammi da bere» disse quest’uomo, mentre riposava sul bordo di un pozzo nel deserto della Palestina, ad una donna che aveva conosciuto la delusione di molti amori. «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv, 4, 7-15). Con lui il deserto della vita comincia a rifiorire discretamente, sommessamente. Quasi non te ne accorgi. La quotidianità cessa lentamente di essere quella dimensione penosa, monotona, povera e limitata che nutre la smania sempre frustrata di evadere. Gli errori non sono più argomento di vergogna e rimorsi che ci rincorrono fino al letto di morte. Il dolore non è più l’inconveniente mai risolto che ci fa rabbiosi, l’offesa del caso che ci fa tristi, l’obiezione tragica che trionfa definitivamente nella tomba. Sopportando il castigo dei nostri errori al posto nostro, Egli ha trasformato il dolore in strumento utile alla vittoria sulla tomba. Vittoria che inizia oggi, discreta, sommessa, quasi invisibile, nella maggiore capacità che Lui ci dona di amare noi stessi, il prossimo e la realtà intera. Dagli atomi alle galassie. Vittoria della giovinezza eterna che intravediamo in uomini come Giovanni Paolo II, più giovani dei giovani.
Sua la bellezza che si oppone alla morte. I poeti hanno sempre intuito che valori, piaceri e storie presenti contengono il suggerimento di valori, piaceri e storie ancora più grandi. «Mostrami una amante che sia pur bellissima – scrive ad esempio Shakespeare nel Romeo e Giulietta – che altro è la sua bellezza, se non un consiglio ove io legga il nome di colei che di quella bellissima è più bella?». Ora, questo suggerimento o resta motivo di frustrazione oppure diventa argomento di speranza. Speranza di poterla un giorno vedere quella bellezza ancora più bella, e che più ci ama, infinitamente, che è la bellezza amante di Colui che è la fonte di ogni bellezza. Se hai questa speranza, la bellezza presente la godi cento volte tanto. Leggi Dante: la fanciulla per cui bruciò il suo cuore adolescente diventa la sua guida fra i misteri del paradiso. Come si può amare una donna più di così? «Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand’ella altrui saluta… e par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare». (La vita nuova, XXVI). Il cielo è la consistenza della terra, l’eterno è la profondità dell’istante, il paradiso è il per-sempre delle gioie crudelmente fuggevoli, pochi attimi in un’intera vita, che vorremmo durassero per sempre. Se non c’è la certezza nel paradiso che assimila all’eterno la bellezza di tutte le cose, e specialmente dell’uomo e della donna, è lo sgomento tragico di Giacomo Leopardi di fronte alla bella donna che la morte ha trasformato in «fango ed ossa… sozzo a vedere, abominoso, abbietto divien quel che fu dianzi quasi angelico aspetto» (Sopra il ritratto di una bella donna scolpito sopra il monumento sepolcrale della medesima). E non c’è lifting che tenga.
«Chi mi segue avrà il centuplo quaggiù e nel futuro la vita eterna». Centuplo vuol dire che goderai cento volte tanto la macchina, la vacanza la promozione e soprattutto la donna e l’uomo. Centuplo vuol dire che le brevi gioie che la vita ci dona sono sperimentate come la prova certa di gioie infinitamente superiori. La vita eterna può non interessarvi, ma il centuplo non può non interessarvi. Esiste infatti un uomo che non desidera giorni felici? Dio può, comprensibilmente, essere un concetto a voi estraneo, ma non potete sentire estranei tutti gli aspetti di questo meraviglioso mondo, quelli scrutati dalla scienza e quelli interpretati dall’arte. Per questo, se c’è un luogo in cui la scienza, l’arte, la cultura e perfino la politica sono valorizzati cento volte tanto, se c’è un luogo in cui la scienza e l’arte si connettono ad un unico centro di senso cessando di essere separate e nemiche, se esiste un luogo così vale la pena andarci a dare un’occhiata. Non è detto che questo luogo vi piaccia, ma per scoprirlo dovete andare a verificarlo di persona. Per questo vi invitiamo, voi che leggete, al Meeting 2003 di Rimini, dal 24 al 30 agosto, che ha per titolo: “C’è un uomo che vuole la vita e desidera giorni felici?”. Venite e vedete.
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