
Vent’anni da guastafeste. Chi è Luigi Amicone detto Gigi

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola, 16 maggio 2016
«Nomina sunt consequentia rerum» erano le prime parole del primo editoriale comparse sul numero zero di Tempi, portato al Meeting di Rimini nell’agosto 1995. Era un numero magnifico, tutto illustrato con l’articolo d’apertura firmato da Giuliano Ferrara sul tempo infinito della giustizia italiana (certe cose non cambiano mai). C’era anche il primo Taz&Bao, con il disegno di uno scimmione in toga e il testo della canzone “Il gorilla” di Fabrizio De André – una roba da querela, ieri e oggi, perché certe cose non cambiano mai.
E, dicevamo, nell’editoriale di quel primo numero si tentava di chiarire cosa fosse quel quartino formato Foglio, così variopinto e corsaro che vedeva la sua nascita vent’anni fa. L’intento era quello di offrire uno strumento di «giudizio e libera circolazione d’idee» che non avesse altra regola se non quella di nominare le cose per nome, cercare di rispettare il loro nesso con l’evidenza, parafrasare, attraverso il commento della cronaca quotidiana, il verso shakespeariano secondo cui «non basta parlare, bisogna parlare seriamente».
Il settimanale fu presentato al Meeting di Rimini e, accanto ad Amicone e a Sergio Scalpelli, laico e non ciellino direttore responsabile, c’erano due affermati giornalisti della carta stampata: Vittorio Feltri e Gad Lerner. Il primo filosofeggiò sulla caducità dei giornali, strumenti buoni per incartare il pesce, il secondo si lanciò in un’amara profezia: «Vi do sei mesi, poi chiuderete» (ciaone, Gad, siamo ancora qui).

Da dove nasceva Tempi? Nasceva dall’idea un po’ pazza di un mezzo disoccupato e di un suo amico carcerato. Era successo questo: nell’ottobre 1993 aveva chiuso il settimanale Il Sabato e molti dei bravi giornalisti che avevano fatto parte di quell’avventura si erano accasati nei quotidiani italiani. Poiché si trattava di gente di valore e di buona scrittura, non avevano avuto troppa difficoltà a trovare un impiego. Fra di loro c’era anche Luigi Tommaso Amicone, per gli amici Gigi, per gli intimi Luigino. Al Sabato Amicone si era per lo più occupato di esteri e di cultura, segnalandosi per un certo stile brioso e un’attitudine caratteriale che lo faceva fuggire dal chiacchiericcio mondano per misurarsi coi fondamentali dell’esistenza, se così si può dire. Amicone, come tutti i suoi colleghi, avrebbe potuto cercarsi un posto, uno stipendio sicuro, un datore di lavoro affidabile cui bussare alla porta il 27 del mese.
Avrebbe potuto, appunto. Dev’essere stato allora che gli balenò nella capoccia di fare un giornale tutto suo. Fu così che iniziò a parlarne con gli amici, a rompere le balle perché quella che era solo un’intuizione potesse trovare delle gambe su cui camminare, a cercare qualche spicciolo per iniziare. Fu così che gli venne in mente Antonio Simone che riuniva in sé tutte e tre le caratteristiche sopracitate: era suo amico da una vita, non sbuffava oltremodo alle sue insistenti richieste, aveva qualche spicciolo. Amicone scrisse una lettera a Simone: ci stai? E quello rispose: ora ho un attimo da fare, ma appena esco da qui, sì, ci sto. Simone, infatti, si trovava provvisoriamente nella casa circondariale di Milano San Vittore, indagato e colpito da una misura di carcerazione preventiva. Il fatto che fosse in carcere avrebbe sconsigliato a chiunque di rivolgersi a lui. A chiunque, appunto, ma non ad Amicone. Anzi, il fatto che fosse in gattabuia, che sui giornali si descrivesse Antonio Di Pietro come una Madonna Pellegrina, che – siamo negli anni di Tangentopoli – non ci fosse quotidiano che non accompagnasse il nome di qualunque democristiano o socialista con la didascalia “ladro”, furono per Amicone motivi necessari e sufficienti per sapere che Simone fosse l’uomo giusto al momento giusto. Non si sbagliava. Si sbagliavano, invece, i giudici, come confermarono le sentenze di assoluzione che arrivarono dieci anni dopo (che dicevamo? Certe cose non cambiano mai).
E, insomma, si partì. Con due lire, un gruppetto di disegnatori, qualche amico che scriveva articoli gratis, un direttore, un redattore (Maurizio Zottarelli), un diciottenne factotum (Samuele Sanvito). Tutto quello che avevano a disposizione erano tre telefoni anni Ottanta, un tavolo, quattro sedie e un computer che assomigliava a un tostapane. La prima sede fu in via Magenta, centro di Milano, messa gratuitamente a disposizione da Stefano Morri, noto avvocato e commercialista e, soprattutto, amico per la pelle. Il primo numero di Tempi uscì in edicola il 28 settembre 1995. Il quarto numero il 25 ottobre, e si rischiò seriamente di chiudere. In copertina c’era il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro raffigurato come Mao Tse-Tung e il titolone “Il grande timoniere”. La cosa non piacque dove non poteva piacere e al novello direttore arrivò qualche rimostranza dall’alto. Si andò vicino, dopo solo un mese, dunque con cinque d’anticipo rispetto alla profezia lerneriana, alla chiusura. Ma il nostro tenne duro, e si andò avanti (ciaone bis, Gad).

Titoli da asma e torcicollo
Quei primi anni furono il riflesso del turbo-amiconismo spinto senza briglie e senza freni. Davvero. A sfogliarli oggi quei settimanali trasudano baldanza, follia, errori marchiani e intuizioni geniali. Vita feroce su carta. L’enjambement era regola, il refuso un accidente cronico e i titoli, oh i titoli, erano una cosa da torcicollo e da asma. In verticale, di sbieco, chilometrici, sovrapposti, incrociati, disegnati, dadaisti, surrealisti. Solo su Tempi potevi trovare articoli che avevano come titoli a caratteri cubitali, espansi su sei-pagine-sei, citazioni letterarie infinite, tipo: “Figlio bianco e biondo, figlio, volto iocondo, figlio, perché t’ha el mondo, figlio, così sprezato?” (Jacopone da Todi). Oppure, tipo splatter: “Con le budella dell’ultimo panda, strangoleremo l’ultima mamma”. O ancora, tipo scioglilingua: “Putin trema. E rema per Roma” o tipo allitterazione bislacca e arcana: “Se Veltroni veltroneggia, Folena folleggia, Parlato sparla, perché Spataro non può spararle?”. O, infine, semplicemente incomprensibili: “Se il potere pappa la libertà (un’authority controllerà anche i tuoi bisognini)”.
Insomma, era tutto un tentare, un provare, un azzardare. C’erano rubriche dedicate alle “Battaglie campali. Quadretti di storia del cristianesimo militante e militare” che proponevano ai lettori nozioni imprescindibili su: “Alfredo il grande e la calata degli ufo vichinghi (per cui si disse: ‘Dio benedica gli inglesi’)”. C’erano numeri scritti in dialetto: undici articoli vergati in undici vernacoli diversi, dal siciliano al calabrese, dal veneto all’altoatesino, dal lombardo al romanesco. Il fatto che accanto al testo in dialetto ci fosse una traduzione in italiano era di poco conforto ai lettori. Il carattere era così minuscolo che si faceva prima a tirare a indovinare un’interpretazione.
Perché ve lo raccontiamo? Per cercare di trasmettervi che ciò che era in nuce in Tempi è qualcosa che è tuttora. In Questa è l’acqua David Foster Wallace scrive che «non venerare è impossibile. Tutti venerano qualcosa. L’unica scelta che abbiamo è che cosa venerare». Ecco, Tempi non ha mai giocato sulla retorica della libertà di stampa, della schiena dritta, su tutti quei farfugliamenti tipici del giornalismo nostrano per dimostrarsi liberi e indipendenti da qualsivoglia potere, che poi altro non sono che genuflessioni al visibile campione di turno o al mainstream invisibile. Tempi ha sempre cercato di dire che cosa sceglieva, che cosa indicava, che cosa preferiva. Prendendosi i suo rischi e le sue cantonate, certo, ma cos’altro è la libertà se non un rischio? La vita stessa è rischio; il punto è per cosa vale la pena rischiare.
Lo sappiamo cosa state pensando: adesso ci rifilano l’omelia. Vi sbagliate: Tempi non ha mai parlato, e non parla, se così si può dire, innanzitutto, di tematiche religiose, men che mai di cattolicesimo luna-mieloso, tutto prediche e turiboli. Tempi, casomai, fin dal primo numero ha parlato di lubrificanti industriali.
The Big Kahuna
Lasciateci spiegare. Nel 1999 è uscito al cinema un film di John Swanbeck, The Big Kahuna. È incentrato sui dialoghi tra tre venditori interpretati da Danny De Vito, Kevin Spacey e Peter Facinelli, che si ritrovano in una stanza d’albergo a Wichita in Texas in attesa di piazzare i loro prodotti a qualche acquirente. La situazione è drammatica perché le vendite languono, l’azienda è in crisi e, insomma, se non la sfangano, i tre si troveranno col culo per terra. Al cinico Spacey e al disincantato De Vito si contrappone l’indole del pivellino, Facinelli, tutto casa e chiesa, Bibbia e grandi afflati ideali. Ad un certo punto, abbocca all’amo il Big Kahuna, il pesce grosso, il miliardario, cui basterebbe vendere i lubrificanti per mettere a posto la situazione. Per una serie di eventi tocca al novellino presentargli la proposta d’acquisto, mentre Spacey e De Vito rimangono nella camera d’albergo in attesa di notizie. Quando arriva, il ragazzo ammette di non aver parlato col miliardario nemmeno un minuto di lubrificanti industriali, ma di essersi intrattenuto con lui per discutere di qualcosa di più importante: «Nostro Signore Gesù Cristo». È l’errore tipico di tanto cristianesimo odierno: pensare di salvare il mondo con le prediche. Ma qui, essendo Amicone cresciuto a birra e Solov’ev, a Giussani e O’Connor, abbiamo sempre pensato che fosse più adeguato, per testimoniare chi siamo e cosa intendiamo per «Nostro Signore Gesù Cristo», parlare di lubrificanti industriali.
Questa è anche una questione di indole, di carattere, e che riguarda Luigi Amicone, detto Gigi, e che inevitabilmente si è trasferita sulle pagine che tenete in mano. È indubbiamente vero che Amicone preferisce le scorribande nel territorio del Diavolo piuttosto che le passeggiate nei Campi Elisi del già noto. È anche una questione di carattere, dicevamo, se Amicone mostra una preferenza per le storie dall’aspetto feroce anziché quelle piane e lineari che van per la maggiore sulla carta stampata nostrana. Garantista in anni giustizialisti, anarco-resurrezionalista in tempi di fastidioso clericalismo da preti-preti e preti-laici, esagerato in tempi che premiano sobrietà e moderazione, Amicone è sempre stato dalla parte sbagliata della strada, cercando di rimanere fedele a quel che il suo padre e amico Giussani gli aveva consigliato («non conformarti!»), non barattando una difficile libertà con una comoda salvezza.
Questo spiega perché in questi anni avete trovato su queste pagine il prete berlusconiano Gianni Baget Bozzo e quello progressista Lorenzo Albacete, Pietrangelo Buttafuoco e Adriano Sofri, il fascista Mario Tuti e l’extraparlamentare Oreste Scalzone, Claudio Chieffo e Vasco Rossi. Questo spiega perché, in tempi di manette facili, Tempi pubblicasse i fax che arrivavano da Hammamet firmati da Bettino Craxi. O perché, in tempi di bioingegneria faustiana e farfugliamenti da azzeccazigoti, si fosse messo in auto con Giuliano Ferrara per girare l’Italia a parlare di «fratello embrione e sorella verità». O perché, in tempi in cui veniva giù la Regione Lombardia e sembrava che le sorti del Paese fossero legate a scoprire dove accidenti fossero finiti gli scontrini di Formigoni, lui, il Celeste, lo mettesse in copertina per riaffermare una cosa che – comunque andrà a finire questa storiaccia – rimarrà vera finché non saremo tutti radunati nella valle di Giosafat: «L’amicizia non è reato».
Insomma, Amicone è sempre uscito di casa senza ombrello mentre veniva giù il temporale e qualche volta è rientrato fradicio, qualche altra volta ci ha azzeccato. Come quando, e fu uno scoop, pubblicò i giudizi ipergarantisti di Di Pietro contenuti in uno sconosciuto manuale per studenti intitolato Educazione civica con elementi di diritto ed economia, o quando riuscì a far dire all’ex direttore del Corriere della Sera, Paolo Mieli, che sì, in effetti, ai tempi di Mani Pulite giudici e giornalisti avevano esagerato. E, dopo il clamore di quelle dichiarazioni, quegli gli telefonò per dirgli che «mi hai fatto un bello scherzetto, ma non ce l’ho con te. Confermo tutto, mi hai fregato con la simpatia».
Ecco, la simpatia spiega tante cose. Non solo o non soltanto l’inclinazione caratteriale, ma sopratutto la simpatia per la realtà, tutta la realtà, anche quella che s’ammonticchia ai bordi delle strade. E che produce certe intemerate con compagni di viaggio che non diresti mai, come si vide qualche anno fa durante la Pasqua del 2012, con Amicone alla marcia radicale per l’amnistia. Eccolo là, il cattotalebano ciellino antiabortista che aizzava la folla di pannelliani, ex galeotti, familiari di galeotti, brutti ceffi, bei ceffi, al grido di «amnistia! amnistia!», tra una citazione di Sinjavskij e una di Paolo VI. E quelli giù ad applaudire, a spellarsi le mani per sottolineare col battimani la citazione di papa Montini anche perché, forse, Sinjavskij in Italia lo conoscono in due (e uno è Gigi e l’altro è suo figlio).
Un tentativo bisogna farlo
Il giorno dopo lui e Pannella avrebbero ricominciato ad accapigliarsi su tutto, ma sulla giustizia no, c’è una certa simpatia, un feeling strano e inspiegabile secondo gli standard con cui siamo soliti classificare gli umani. D’altronde Amicone è come scrive: gran dispendio di parentesi ed ellissi verbali. Ama le storie irregolari di uomini irregolari, le sterzate stilistiche e i pensieri zigzaganti, Pasolini e non Terzani, Ferrara e non Gramellini, Testori e non Saviano. C’è della coerenza in tutto ciò, un filo rosso che tiene assieme i pezzi del puzzle. Se scegli la libertà, non è che poi puoi fare lo schizzinoso purista che pizzica dal piatto solo quel che si può maneggiare coi guanti bianchi. Si prende tutto e si cerca di trattenere ciò che vale, per come si riesce e per quanto si è capaci. Ma un tentativo bisogna farlo perché, come scrisse Cesare Pavese nel Mestiere di vivere: «Sono tutti capaci di innamorarsi di un lavoro che si sa quanto rende, difficile è innamorarsi gratuitamente». Non c’è per Tempi descrizione più adeguata. Un giornale che sa che le cose vere non sono quelle che si sanno, ma quelle che si desidera capire.
Foto Tempi
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