Vargas Llosa, il liberale che ci insegnò a essere realisti

Di Emanuele Boffi
14 Aprile 2025
Si è spento il grande scrittore premio Nobel, che affiancò alla sua produzione letteraria un'intensa attività politica. Intervista ad Alberto Mingardi, direttore Ibl
Lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa (Foto Ansa)
Lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa (Foto Ansa)

Si è spento a Lima, all’età di 89 anni, Mario Vargas Llosa, romanziere premio Nobel per la letteratura del 2010, personaggio ecclettico e controcorrente, impegnato anche sul fronte politico e sociale. Per tracciarne un ritratto, soprattutto su questo secondo aspetto, ci affidiamo ad Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni e docente di storia del pensiero politico all’Università Iulm, che è anche autore dell’introduzione a Sciabole e utopie, raccolta di saggi di Mario Vargas Llosa edita da Liberilibri nel 2020. Vargas Llosa ha ricevuto il “Premio Bruno Leoni”, dell’omonimo istituto, nel 2014.

Dall’infatuazione per Fidel Castro all’ammirazione per Adam Smith e von Hayek, dall’iscrizione al Partito comunista peruviano all’approdo liberale e liberista. Come si spiega l’insolito percorso intellettuale e politico di Mario Vargas Llosa?

In realtà la fase “comunista” di Vargas Llosa non è poi durata molto. Vargas Llosa si allontana dal comunismo già col caso Padilla, nel 1971. Il poeta Heberto Padilla viene messo in galera, dopo che gli era stato già tolto un premio dell’associazione scrittori cubani, per le sue critiche a Castro. Poi viene costretto a una umiliante “autocritica” pubblica. Un buon numero di intellettuali firma una lettera contro la penosa confessione estorta a Padilla. C’è Mario, ma anche Hans Magnus Enzensberger e Carlos Barral, e poi Sartre, Susan Sontag, Italo Calvino, Giulio Einaudi e due dei fondatori del Manifesto, Rossana Rossanda e Lucio Magri. La cosa straordinaria non è tanto che Vargas Llosa reagisse agli elementi autoritari insiti nel socialismo, che cominciano a mostrarsi anche a Cuba. La cosa straordinaria è quel che avviene dopo: come, cioè, comincia a coltivare una serie di letture (da principio Raymond Aron, il suo amico Jean-François Revel, Isaiah Berlin) che ne fanno un liberale a tutto tondo. Un autore chiave è, come per molti, Popper, ma si potrebbe leggere La società aperta e i suoi nemici, abbracciare la democrazia, rifiutare il socialismo e tuttavia non arrivare a difendere le ragioni dell’economia di mercato. È quello che fanno in molti, in quegli anni. E invece qui entrano in gioco, secondo me, due cose. La prima è che fra i romanzieri della sua generazione Vargas Llosa è quello più visceralmente critico nei confronti del potere. Tutto comincia coi suoi scontri col padre, che lo manda in un collegio militare, dove, per così dire, il potere lo vede in faccia e impara a conoscerlo per quel che è. La vicenda familiare, il non trovarsi con questo padre che aveva abbandonato lui e la madre e poi se li era ripresi, che aveva avversato la vocazione di scrittore del figlio, segna Vargas Llosa e ne fa un anti-paternalista per tutta la vita. Mai accetterà il potere politico che vuole prendere il posto dei nostri genitori. La seconda è un caso felice. Mario e la famiglia sono a Londra quando la signora Thatcher è primo ministro e osservano in presa diretta un Paese che cambia. Per carità, ha letto Hayek e Adam Smith, però frequenta ambienti letterari dove ci sono persone che li conoscono benissimo (come Paul Johnson), ma soprattutto vede come la libertà economica cambia, in pochi anni, il volto di un Paese. Come restituisce voglia di fare e capacità di rischiare a una popolazione. E questo ne fa, per il resto della sua vita, cioè per qualcosa come i quarant’anni successivi, un paladino della libertà economica. Vorrei notare che per il liberalismo Vargas Llosa si è speso con straordinaria generosità, prima in politica, poi come presidente della Fundación Internacional Para la Libertad, poi mettendosi a disposizione delle iniziative più diverse, regalando prefazioni a giovani saggisti e partecipando alle tavole rotonde più disparate. Non era un liberale part time.

Lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa (Foto Ansa)
Lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa (Foto Ansa)

Come raccontò spesso, era entrato in politica per opporsi alla nazionalizzazione delle banche e delle assicurazioni proposta dal presidente Alan García. Raccontò che «quella legge, la fermammo. A un certo punto mi illusi, mi feci prendere dal sogno di una candidatura liberale alla presidenza. Facemmo tanti errori ma alcune idee misero radici, non si può dire che sia stato un fallimento completo». Ha ragione a dire che non fu un «fallimento completo»? Cosa rimane dell’esperienza politica di Vargas Llosa?

Quell’esperienza si iscrive in un momento straordinario. È appena crollato il muro di Berlino, c’era stata la Thatcher e c’era stato Reagan, in Perù potrebbe arrivare quello che tutt’ora viene liquidato come “neoliberalismo” in spagnolo e “neoliberismo” in italiano, ce lo porta uno dei più grandi narratori dei suoi tempi. Nel 1990, il Premio Nobel per la letteratura va a Octavio Paz, il grande poeta messicano che, a differenza di Vargas Llosa, non aveva mai davvero abbracciato un liberalismo coerente ma che già negli anni Settanta aveva definito lo Stato moderno «l’orco filantropico» e aveva tenuto a battesimo, con le sue riviste, una sensibilità più liberale nel continente. Il “Movimento Libertad” di Vargas Llosa è un’esperienza tenuta assieme da giovani e giovanissimi attivisti politici, che sentono nell’aria la possibilità del cambiamento. Alcuni di essi hanno collaborato con l’economista Hernando de Soto (col quale poi le strade si divideranno), che nel 1986 ha pubblicato, con una lunga e bellissima Introduzione di Mario, El Otro Sendero. Il sentiero diverso da quello “luminoso” passa da un’analisi minuziosa dell’economia informale. La tesi, che poi influenzerà anche la campagna elettorale di Vargas Llosa, è che la povertà del Perù non sia un destino e nemmeno sia dovuta a una penuria di capitale che lo Stato può controbilanciare ricorrendo a grandi investimenti. Invece viene da un problema istituzionale: c’è un dinamismo economico, anche febbrile, in aree e luoghi che però restano poveri, perché le persone non possono vantare diritti di proprietà formali. Magari lavorano molto, ma vivono in case che per lo Stato non esistono e che non possono usare come garanzia per chiedere un prestito e costituire un’impresa. Le persone sono state, cioè, tradite da un sistema legale distante e cieco rispetto a un’economia che liquidiamo come “informale” per pigrizia intellettuale e perché tutto ciò che sfugge alle logiche dirigiste, in qualche modo, scompare dal radar. Vargas Llosa queste idee le mette in circolo, spezza l’inganno per cui il liberalismo sarebbe un’ideologia di comodo di quel pezzo di classe dirigente che è intellettualmente e finanziariamente dipendente dagli Stati Uniti. La sua campagna elettorale, brillantissima al primo turno, perde slancio al secondo e i vecchi gruppi dirigenti peruviani fanno convergere voti su Alberto Fujimori, candidato che nessuno conosceva e che poi dà al Paese una nuova (per fortuna, breve) stagione autocratica. Eppure anche Fujimori rubacchia qualche idea a Vargas Llosa, come faranno poi Toledo, Umala e tutti gli altri presidenti che si susseguono fino ad anni recenti. Il Perù resta un Paese pieno di problemi, che non ha avuto un suo grande riformatore, ma ha sperimentato anche anni di crescita economica sostenuta (fra il 4 e l’11 per cento, nei primi anni duemila), prima della pandemia. Come sempre, le riforme “giuste” esistono solo sulla carta ma anche a farle male, e a spizzichi e bocconi, le riforme pro-mercato servono, aprono spazi alla libera iniziativa, consentono a qualche imprenditore di fare cose che non avrebbe potuto fare e a qualche consumatore di godere di beni e servizi di cui altrimenti non avrebbe potuto godere.

Diceva che «il liberalismo ti insegna a essere realista». Cosa significa? Quali erano le caratteristiche del liberalismo di Vargas Llosa?

C’è una frase, in Storia di Mayta, che è uno dei romanzi “politici” di Vargas Llosa, la storia di un militante politico, che forse ci aiuta a capire cosa intendesse. «Quando si insegue la purezza, in politica, si arriva all’irrealtà». Nei romanzi più “politici”, Vargas Llosa ha due temi principali. Uno (penso alla Festa del caprone) è il potere: la sua brutalità. L’altro è l’utopia (penso a Il paradiso è altrove). Il realismo liberale è capire che cos’è il potere, e per questo lottare per limitarlo. Ma è anche rifiutare i salti in avanti dell’utopia, l’idea che possa esistere la società perfetta, il regime perfetto, la legge perfetta, perché gli esseri umani sono quel che sono e la loro libertà è una faccenda concreta, spesso assai diversa da quel che ci lasciano intuire quelli che per mestiere pensano la politica. C’è una tendenza, che era massima quando Vargas Llosa era ragazzino ma che è ancora con noi, a vedere nella politica la salvezza, diciamo così. È l’idea che tutto è politico. Per Vargas Llosa no, la politica è una attività umana, non la più nobile, senz’altro una delle più pericolose. Il liberale non insegue la purezza, accetta l’imperfezione umana come un dato, spera che si possa tenere assieme un ordine sociale senz’altro imperfetto, ma che consenta alle persone di vivere ciascuno a suo modo la propria vita.

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