Utero in affitto, la pratica che trasforma le donne in forni e i bambini in oggetti

Con le unioni civili l’Italia apre la porta all’utero in affitto. Ma da Thailandia e Francia arrivano storie che smontano i miti della riproduzione high-tech

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Negli Stati Uniti costano 117 mila euro, in Thailandia 61 mila, in Georgia e Ucraina 58.500 mila, in Canada 56 mila, in India 55 mila. Gli affari si fanno in Grecia, dove si spendono “solo” 48 mila euro. Stiamo parlando di bambini e questa è la classifica che l’anno scorso fu redatta dall’associazione “Famiglie attraverso la maternità surrogata” per dare una panoramica dei prezzi cui va incontro chi desideri un figlio ma non possa averlo. In verità, alla cifra andrebbe aggiunto qualche altro migliaio di euro (dai 5 ai 15 mila) per le spese inerenti gli spostamenti, gli hotel, le assicurazioni.

È questo il dorato mondo della maternità surrogata, melliflua espressione per indicare le pratiche di utero in affitto. Spesso ammantate di parole quali «altruismo», «amore», «affetto», tali pratiche altro non sono che contratti commerciali per la fornitura di figli. Ora che il 28 gennaio inizia in Senato la discussione sulle unioni civili si torna a parlarne, soprattutto in relazione alla contrastata norma sulla stepchild adoption (l’adozione del figliastro) che, di fatto, permetterebbe anche alle coppie italiane di ricorrervi.

Il tema entra nella cronaca italiana, ma non è da oggi che se ne dibatte. All’estero sono molto più “avanti” (basti pensare a Apple e Facebook che sostengono le spese per il congelamento degli ovuli delle loro dipendenti) e c’è chi, come Ruth Walker e Liezl van Zyl, due professori neozelandesi dell’Università di Waikato, ha proposto di rendere la maternità surrogata un vero e proprio mestiere. In verità, lo è già di fatto, ma i due ricercatori hanno avanzato l’ipotesi di sostituire la pratica dei rimborsi – che lascia sempre ai compratori il coltello dalla parte del manico – con un più equo sistema di pagamento che riconosca la professionalità delle gestanti. Insomma, rendere la maternità – non diversamente dalla collaborazione domestica – un lavoro, con tutte le tutele del caso. Si eviterebbero così episodi incresciosi, ormai sempre più frequenti, di cause fra committenti e gestanti che si vedono rifiutare i propri prodotti perché “difettosi”.

Adolescenti attempati
A questo, ormai, siamo arrivati. Come raccontò l’anno scorso un giornalista su Le Figaro, la “riproduzione high-tech” è un enorme business, e i figli, grattata via la scorza retorica del sentimento, né più né meno che un prodotto da banco, un bambolotto da scaffale. Quando il giornalista Xavier Lombard si recò a Bruxelles per partecipare alla conferenza “Opzioni genitoriali per uomini gay europei” si trovò immerso in quella che potremmo definire una fiera del concepimento. Agenzie che promuovevano i propri pacchetti viaggio “tutto compreso”: pernottamenti, cataloghi, assistenza legale. Tutto molto professionale, expensive, gay-friendly. Un paese dei balocchi dell’embrione, dove gli unici a non avere voce in capitolo, gli unici a non poter dire la loro erano proprio gli oggetti di quei costosissimi desideri: loro, i figli. Bambolotti muti in mano ad adolescenti attempati e abituati ad ottenere tutto ciò che recriminano.

Ma la realtà tende sempre a prendersi le sue rivincite sulla ubris umana. Negli Stati Uniti, e nel mondo occidentale in genere, crescono le cause tra madri surrogate e committenti. Il problema nasce sempre dal fatto che, ad un certo punto, come d’incanto, ci si accorge che quella “cosa lì”, il figlio, non è esattamente un prodotto, ma qualcosa d’irriducibile al tentativo di reificarlo. E così nascono le dispute tra gestanti e committenti, con le prime a reclamare il loro diritto a tenere i figli e i secondi a scuotere contratti e mostrare firme in cui l’assenso a selezionare i prodotti (perché troppi, perché malformati…) era stato messo nero su bianco. L’ultimo caso, in ordine di tempo, riguarda Melissa Cook, donna californiana incinta di tre gemelli grazie allo sperma di un uomo di 50 anni della Georgia e di una donatrice di ovuli. L’uomo ha detto di non volere tre figli, ma solo due. Melissa si oppone, non vuole abortire il terzo figlio, «perché è sano», dice.

Cose, cioè schiavi
Il problema inizia a investire quei paesi dove, finora, si era chiuso più di un occhio su tali pratiche. Il caso più clamoroso riguarda la Thailandia che, dopo trent’anni di pilatismo, ha deciso di limitare fortemente l’utero in affitto. Tempo fa, aveva destato grande scandalo il caso di una giovane di 21 anni, Pattaramon Chanbua, che, dopo aver condotto una gravidanza per conto di una coppia di australiani, aveva partorito due gemelli. Ma uno di loro, Gammy, era nato Down e per questo era stato rifiutato dalla coppia. Un caso non raro, ma nuovo per la determinazione di Pattaramon che non si era arresa a “scartare” quel bambino. È stato allora che il parlamento ha deciso di intervenire arrivando poi nell’estate scorsa a vietare agli stranieri di ricorrere alla maternità surrogata. «Vogliamo impedire che la Thailandia diventi l’utero del mondo», disse un parlamentare locale.

Insomma, non una bella pubblicità per il business della riproduzione. È per questo che da un po’ di anni sono stati introdotti dei correttivi linguistici per edulcorare il commercio degli “avventurieri della genitorialità”. È per questo che, anche in Italia, qualcuno ha iniziato a parlare di “maternità surrogata altruistica”, pratica che non prevederebbe un pagamento ma solo un rimborso spese. A parte poi comprendere a quanto ammonterebbe il rimborso, l’escamotage rivela la forma mentis di chi l’ha proposto: gratuito o a pagamento, un bambino non dovrebbe essere oggetto di scambio. Si possono regalare le cose, non gli esseri umani. A meno di volere ritenerli degli schiavi, e dunque a nostra totale disposizione. Sono i “progressi” del XXI secolo.

Femministe e omosessuali
“Progressi” ai quali si oppongono non solo gli “oscurantisti” cattolici, ma anche varie personalità laiche d’estrazione culturale molto diversa. Le più interessanti si sono viste muoversi in quest’ultimo periodo in Francia, coagulate intorno alla figura della filosofa femminista e di sinistra Sylviane Agacinski, moglie dell’ex primo ministro socialista Lionel Jospin. Dopo aver promosso e fatto pubblicare su Liberation un manifesto contro l’utero in affitto, Agacinski ha convocato per il 2 febbraio a Parigi un convegno per chiedere l’abolizione universale dell’utero in affitto. Presentandolo ad Avvenire il 29 ottobre scorso, la filosofa autrice di Corps en miettes («Corpi sbriciolati», Flammarion), ha accusato i media che «si sono smarriti volendo vedere in questa pratica sociale un presunto progresso. Hanno parlato molto della felicità delle coppie che vogliono un bambino a ogni costo, al punto che si è radicata l’idea che esista un diritto al figlio, indipendentemente dai mezzi per farlo nascere. Nonostante questa propaganda, si comincia a comprendere, grazie a numerosi documentari, la violenza che rappresenta, per le donne, l’ingresso della maternità su questo mercato».

Un mercato che Agacinski ha paragonato alla prostituzione: «Fare della maternità un servizio remunerato è una maniera di comprare il corpo di donne disoccupate che presenta molte analogie con la prostituzione». Per questo, ha aggiunto, non devono esistere compromessi: la pratica dell’utero in affitto va considerata un reato e vanno puniti agenti, medici e intermediari che la favoriscono. Le posizioni della Agacinski sono meno minoritarie di quanto si possa pensare. La sua battaglia è stata sostenuta in Francia anche da personalità assai differenti come l’intellettuale “ateologo” Michel Onfray e il leader no global José Bové. Un fronte assai ampio e composito che include anche persone provenienti del mondo dell’associazionismo omosessuale. Non stiamo parlando solo di Jean-Pierre Delaume-Myard, ex portavoce di Homovox che aderì alla Manif pour tous e si scagliò contro «la mercificazione delle donne, trattate come galline che fanno le uova», ma anche di Marie-Josèphe Bonnet, storica militante della causa femminista, lesbica e fondatrice del Fronte omosessuale d’azione rivoluzionaria (Fhar). Fu lei, in un’intervista apparsa su Tempi nel dicembre 2014, a dire che l’utero in affitto è «lo schiavismo moderno. È un mercato, è l’apertura al commercio internazionale di bambini e alla negazione del ruolo della madre, alla riduzione del corpo della donna a mero strumento atto a soddisfare i desideri di coppie agiate. Il messaggio vergognoso che viene fatto passare è che tutto si compra e tutto si vende, compreso il potere procreatore della donna. È uno scandalo che deve essere fermato».

Anche in Italia si sono levate voci contrarie alla pratica: la filosofa Luisa Muraro, le giornaliste Ritanna Armeni, Paola Tavella, Marina Terragni, per fare qualche nome. E da ultime, le femministe di “Se non ora quando” che hanno pubblicato a inizio dicembre un appello contro l’utero in affitto. Ovviamente, purtroppo, anche loro sono state accusate di omofobia, un’etichetta a cui è ormai sempre più difficile sfuggire. Non ce l’ha fatta nemmeno Aurelio Mancuso, che ha scritto di essere contrario alla gestazione per altri. Nemmeno lui, che è stato presidente dell’Arcigay e ora presidente di Equality Italia, è scampato alle reprimenda di chi considera i figli un diritto.

Foto maternità surrogata da Shutterstock

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