Uscire dalla scuola del ’68

Di Emanuele Boffi
19 Aprile 2023
I contributi del ministro Valditara e dell'esperto Bertagna per "Lettera 150". Spunti per non essere costretti a trangugiare la solita "minestra (s)cotta"

Intervistato da Tempi a inizio anno, il ministro dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, disse che era ormai tempo di «uscire dalla scuola del Sessantotto». «Usciamo dalla scuola del “tutti uguali” – ci disse allora Valditara -. La nostra deve diventare una scuola delle diversità, perché la diversità è una ricchezza. La capacità di valorizzare le diversità è la sfida di una scuola moderna, di una scuola democratica, di una scuola costituzionale».

Cosa significa? Una traccia per comprendere meglio quelle parole l’ha fornita di recente Valditara stesso. È uscito sul sito di Lettera 150, il gruppo di circa 150 professori universitari animato dallo stesso ministro, la rivista omonima dedicata proprio al “1968” (la trovate qui).

Vi si possono leggere i contributi di diversi docenti ed esperti quali Andrea Ungari, Raimondo Cubeddu, Francesco Cavalla, Giuseppe Parlato, Paolo Miccoli e Antonio Toniolo tutti ruotanti attorno all’anno “rivoluzionario”, indagato sotto diverse angolature, secondo prospettive mai accomodanti e sempre stimolanti (bastino alcuni titoli: “Costruzioni o macerie?”; “Il ’68 come regressione; “Il ’68 e l’antipolitica; “Il ’68 a Medicina”).

Le parole di Valditara

Nell’editoriale che introduce i contributi, Valditara si interroga se sia solo un caso che l’ascensore sociale si sia bloccato in Italia proprio a metà degli anni Settanta, cioè appena si sono potuti sperimentare i primi effetti del ’68. Il fatto è che, qualunque sia la risposta che si vuole dare a questo interrogativo, resta un fatto che «la scuola del dopo ’68 ha peggiorato la sua capacità di stimolare la mobilità sociale, concorrendo piuttosto a cristallizzare le differenze e quindi favorendo una società classista».

Il ’68 non è stato un fenomeno «esclusivamente negativo», concede il ministro: ha certamente aiutato a «rivedere un certo assetto sociale ingessato, patriarcale, tutto doveri e pochi diritti», tuttavia la sua spinta è stata «gravemente contaminata da “cattivi maestri” che hanno imposto tre dogmi rivelatisi nefasti: il disconoscimento dell’autorità; un egualitarismo che sta a fondamento del principio noto come dell’uno vale uno, l’opposto del principio costituzionale di uguaglianza, che presuppone trattamenti diseguali per situazioni diseguali e che non disconosce il merito; la teoria della liberazione».

La crisi di autorevolezza, l’egualitarismo che mette sullo stesso piano le opinioni del discente e del docente, una certa teoria della liberazione che ha portato alla nullificazione dei doveri sono tutti lasciti culturali del Sessantotto, scrive Valditara. Ed è ora giunto il momento di una «fuoriuscita»: un «passaggio necessario per la crescita civile, morale ed economica del Paese».

“Sessantotto: a scuola, minestra (s)cotta”

Ed è proprio incentrato sulla scuola il saggio scritto da Giuseppe Bertagna, Ordinario di Pedagogia all’Università di Bergamo, già direttore del Dipartimento di Scienze della persona e del mercato del lavoro, tra gli artefici della riforma Moratti.

Sin dal titolo (“Sessantotto: a scuola, minestra (s)cotta”), si comprende dove Bertagna punti: «Il ’68 non fu affatto quella “rivoluzione” epocale e perfino “traumatica” che sarebbe stato bene fosse invece intervenuta. Nonostante tutta la diffusa memorialistica ideologica che ancora la accredita, non ci fu (e purtroppo, a mio avviso) alcuna vera “rottura irreversibile e traumatica della tradizione” a riguardo dei pilastri strutturali e mentali costitutivi del nostro sistema scolastico».

Il sistema, spiega infatti Bertagna, è rimasto sostanzialmente quello pensato da Gentile, mentre il ’68 ha portato la rivoluzione solo in due campi: «Nei numeri degli studenti, con l’esplosione della cosiddetta “scuola di massa”; e, ben più rilevante, nella mentalità, nei costumi, nei principi e valori».

Scambio al ribasso

Così, mentre i “rivoluzionari” di allora sono diventati la classe dirigente di oggi, migliorando la loro carriera e la loro posizione, al Paese hanno fatto trangugiare una medicina amara, che Bertagna sintetizza con queste parole: «Le politiche scolastiche ed universitarie adottate propongono al movimento del ’68, da un lato, e il
movimento “rivoluzionario” accetta, dall’altro, un silenzioso e sventurato scambio al ribasso tra qualità e quantità le cui conseguenze stiamo ancora pagando».

Qui il discorso di Bertagna si fa più storico e tecnico, ma a noi basta annotare questo passaggio per darne un’idea al lettore: «Studio e lavoro, cultura e professione erano e dovevano rimanere separati come l’acqua santa e il diavolo. L’uno l’opposto dell’altro. Incompatibili. Il primo otium aristocratico, il secondo neg-otium non solo plebeo e proletario, ma anche “imprenditoriale”. Il primo fioritura e compimento perché consentirebbe di evitare il secondo, ritenuto soltanto e sempre sfruttamento. Nessuna liberazione né politica né pedagogica né culturale sarebbe stata mai stata possibile in, con e attraverso il lavoro. L’unico modo per averla, al contrario, sarebbe stato semplicemente il rifiuto del lavoro, di qualsiasi lavoro. Il sogno anticipato, insomma, di ciò che sarebbe diventato il programma politico del divano per tutti e del reddito di cittadinanza universale».

Siamo ancora in tempo per “uscire” da quella situazione? È quello che si augura Bertagna nelle ultime righe della saggio: «Non resta che sperare sia stata erosa e che si possa aprire, finalmente, una stagione diversa».

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