Ma quale Medioevo, l’islam politico è un’ideologia sempre più moderna

Di Rodolfo Casadei
11 Settembre 2021
L'identità di tanti rami dell'albero islamista deve molto al pensiero politico occidentale. Spunti per capire l'11 settembre e il futuro a rischio dell'Europa
Osama Bin Laden in un fotogramma mandato in onda dal TG1 nel settembre 2001

Osama Bin Laden in un fotogramma mandato in onda dal TG1 nel settembre 2001

Cade il ventesimo anniversario degli attentati dell’11 settembre, e la quasi coincidenza temporale con la vittoria lampo dei talebani in Afghanistan, dopo vent’anni di inutili sforzi militari ed economici degli Usa e della Nato volti all’occidentalizzazione del paese, restituisce smalto alla retorica della lotta all’ultimo sangue fra i valori della modernità nella loro espressione politica e quelli della teocrazia oscurantista di stampo medievale.

Destino ultraterreno e progetto terreno

L’equazione Al Qaeda = Medioevo, talebani = Medioevo rimbalza sui media e sui social. Eppure per capire quello che accadde vent’anni fa in America e quello che sta succedendo ora nel cuore dell’Asia sarebbe meglio concentrarsi su quel che di moderno – tanto – c’è nell’islam politico, piuttosto che su quello che c’è di premoderno – sempre meno. L’anatema di commentatori e intellettuali che consegnano i talebani, storici alleati e sostenitori dei terroristi jihadisti che nel 2001 colpirono New York e Washington alle tenebre dell’oscurantismo medievale rimanda a quel meccanismo psicologico di difesa che è la negazione.

In questo caso negazione dei contributi del pensiero politico occidentale moderno all’identità ideologica dei tanti rami dell’albero islamista. Lo si è detto e stradetto tante volte: l’islam politico è ideologia, perché in esso la questione del destino ultraterreno dell’essere umano è funzionalizzata al progetto terreno della creazione del califfato, entità politica tutta storica, ovvero all’estensione del Dar al-Islam, cioè dell’insieme di stati retti dalla legge islamica e abitati dalla umma, la comunità musulmana, al mondo intero. Il martire del jihad si immola per conquistarsi un posto in Paradiso, esperienza di cui nessuno ha potuto raccontare perché mai nessuno è tornato indietro, mentre il risultato tangibile del suo sacrificio è l’edificazione dello stato islamico.

Una ribellione contro la morte

Gli occidentali terrorizzati dalla disponibilità dei combattenti jihadisti di ogni tipo – dal terrorista suicida di Isis o Al Qaeda al miliziano talebano – a sacrificare la propria vita per la vittoria dell’esercito di Dio («noi amiamo la morte più di quanto voi amate la vita») si affrettano a lanciare l’accusa di fanatismo religioso al loro indirizzo. Dimenticano che nella tradizione più pura del martirio monoteista cristiano, ebraico e musulmano sufi il testimone di Dio subisce la persecuzione ed eventualmente la morte per restare fedele alla legge di Dio o al suo rapporto personale con Dio, non per imporla ad altri. La morte messa in conto come conseguenza di azioni di forza intraprese per dare concretezza storica a un ideale politico, cioè per conquistare il potere o comunque modificare gli assetti politici esistenti, è tipica dell’anarchismo e dei totalitarismi, fenomeni che appartengono alla modernità del XIX e del XX secolo.

La modernità nasce in Europa come ribellione contro la morte (L’aratore di Boemia di Johannes von Saaz è del 1400), progressivamente sempre meno accettata come volontà di Dio fino all’approdo all’ateismo ottocentesco e novecentesco; a integrare nuovamente il morire e la morte nel senso della vita dopo la morte di Dio hanno provveduto i totalitarismi: l’edificazione del comunismo, del nuovo impero fascista, del reich millenario nazista, ecc. sono il significato ultimo per cui il combattente dà la propria vita.

La società post-moderna, quella che ha per inno Imagine di John Lennon (di cui il 9 settembre si è celebrato il 50° anniversario con tanto di stucchevoli commenti encomiastici nei telegiornali), quella cioè dove nichilisticamente non c’è «niente per cui uccidere o per cui morire», è ridotta a censurare, rimuovere e occultare il morire e la morte con un crescendo di atti di negazione che vanno dalla cremazione all’eutanasia legale. Il jihadismo, espressione radicale dell’islamismo, reintegra il senso del morire e della morte al senso della vita allo stesso modo dei totalitarismi: in ciò è moderno.

Quella affinità al totalitarismo

In un commento del marzo scorso nel quale pronosticavamo la vittoria militare dei talebani in Afghanistan, sottolineavamo gli elementi di modernità della loro ideologia e della loro prassi e quelli di Al Qaeda citando John Gray, discepolo di Isaiah Berlin:

«Come il comunismo e il nazismo, l’islam radicale è moderno. Sebbene pretenda di essere antioccidentale, è formato tanto dall’ideologia occidentale quanto dalle tradizioni islamiche. Allo stesso modo dei marxisti e dei neoliberisti, anche gli islamici radicali concepiscono la storia come il preludio a un mondo nuovo. Tutti sono convinti di poter riformare la condizione umana. Se esiste un solo mito moderno, è questo». (Al Qaeda e il significato della modernità, Fazi Editore, 2003, p. 7)

Con una visione di insieme un po’ diversa arriva alle stesse conclusioni Paul Berman nel suo famoso Terrore e liberalismo illustrando il pensiero di Sayyd Qutb, il teorico egiziano dell’islamismo più radicale:

«Qutb descrisse la sua grandiosa visione dell’islam e la sua situazione disperata, e il suo destino utopico, ma nell’Europa del Novecento tutti i movimenti totalitari descrivevano una grandiosa visione della civiltà moderna, situazioni disperate e destini utopici. Ognuna delle dottrine totalitarie dell’Europa esprimeva quella visione raccontando una versione del mito primordiale, il mito dell’Armagheddon. E così fece anche Qutb. Pure nel suo caso c’era un popolo di Dio. Erano i musulmani. Il popolo di Dio era stato attaccato insidiosamente dall’interno della sua stessa società, da forze corrotte e inquinate. (…) I nemici interni erano sostenuti da nemici sinistri, addirittura cosmici, provenienti dall’estero. Erano i crociati e gli ebrei. Contro di loro si sarebbe scatenata una guerra terribile, condotta dalla avanguardia musulmana. Sarebbe stato il jihad. La vittoria, come sempre, era garantita. E il regno di Dio, che era esistito una volta in un passato lontano, sarebbe tornato. Sarebbe stato il regno della sharia. E il regno avrebbe creato una società perfetta, pulita da qualsiasi impurità e corruzione, come sempre nelle mitologie totalitarie. La dottrina di Qutb era straordinariamente originale e profondamente musulmana, se osservata da un certo punto di vista; da un altro, invece, era solo una nuova versione dell’idea totalitaria europea» (Liberalismo e terrore, Einaudi 2004, p. 118).

Gray e Berman colgono la modernità dell’islam politico nella sua affinità al totalitarismo, realtà che giustamente aborrono. Ma se risaliamo nel tempo cogliamo negli intellettuali europei che più hanno influenzato l’illuminismo una valutazione dell’islam come l’unica religione autenticamente compatibile con la modernità in termini positivi. Di Voltaire tutti ricordano la tragedia Maometto ossia il fanatismo (1736), dove in realtà il filosofo col pretesto di denunciare l’islam oppressivo metteva sotto accusa la Chiesa cattolica. In realtà nella maggior parte dei suoi scritti Voltaire mostra apprezzamento per l’islam, apprezzamento che arriva al culmine nelle pagine di Examen important de milord Bolingbroke, ou le tombeau du fanatisme (1766):

«La religione di Maometto era senza dubbio più sensata del cristianesimo. Non vi si adorava un ebreo nel mentre che si odiavano gli ebrei; non si chiamava una madre ebrea madre di Dio; non si cadeva nella stravagante bestemmia di dire che tre dèi fanno un dio; non si mangiava il dio che si adorava, e non lo si espelleva con gli escrementi. Credere in un solo Dio onnipotente era il solo dogma, e se non ci si fosse aggiunto che Maometto è il suo profeta, sarebbe stata una religione così pura, così bella come le lettere cinesi. Era il semplice teismo, la religione naturale, e di conseguenza l’unica vera».

La fascinazione degli illuministi per l’islam persiste nell’islamo-goscismo odierno, forte soprattutto in Francia, che vede in questa religione e nelle masse che l’hanno ereditata i vettori della lotta per la giustizia sociale e contro l’imperialismo e il razzismo (Alain Gresh, Edwy Plenel, Raphael Liogier). Ed è questa fascinazione che viene da lontano, insieme alle cascate di petrodollari e ai fattori demografici legati all’immigrazione, che rendono pensabile una vittoria dell’islam politico anche nei paesi europei. Quella descritta in modo romanzescamente insuperabile da Michel Houellebecq nel suo Sottomissione.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

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