
Una voce minuscola sotto il cielo plumbeo della Milano dei saldi
È il 18 di gennaio. Il cielo sopra Milano è plumbeo, basso come fosse troppo pesante, questa volta di nebbia e di carbone, e scivolasse in giù sulle case. Forse dietro lo schermo di caligine c’è tuttavia il sole, se ne intravede come un bagliore giallognolo che illividisce le strade, e le facce dei passanti. Siamo tutti pallidi in questo grigiore che pare colare giù fra i palazzi e spalmarsi sui davanzali, e sulle povere piante dei nostri balconi. Non un filo di vento, non è freddo come sempre in gennaio; c’è un’aria quasi tiepida, strana, in questo inverno mancato che disorienta – come un ciclo eterno di vita e morte, di cui la natura si sia misteriosamente scordata. Dai rami spogli degli alberi nei giardini spuntano gemme anzitempo, che forse non riusciranno a sbocciare. C’è qualcosa di dissestato nell’aria, come un disordine che non sai definire. Dalle pareti dei palazzi del centro ti fissano i modelli di Armani e degli altri, doverosamente lisci ed efebici. Con il loro sguardo nel nulla suggeriscono agli uomini di diventare come loro. Le scritte sui muri delle case non dicono di alcuna passione, solo graffiti illeggibili come di chi volesse affermare di esistere, senza avere nulla da dire. E noi disciplinati marciamo verso le nostre mete schiacciati da questo cielo sporco, come soldati che non hanno bisogno di ordini.
Lucenti solo le vetrine dei grandi negozi, dove la gente, attirata da quello scintillio come uno sciame di falene, entra a frotte, famelica di saldi. E ansiosa fruga, rovista, suda nei camerini contorcendosi in taglie sbagliate. Ci si spintona davanti allo specchio che impietoso riflette tutto, con simmetrica precisione: come siamo affannati, e golosi di che cosa in realtà, se già i nostri armadi traboccano. Con i sacchi colmi del bottino si esce e ci si rituffa in un’altra giostra di svendite. La merce rovistata pare gonfiarsi e cade dagli scaffali, sommerge, tracima.
E fuori di nuovo quel cielo di piombo addosso, quel gusto vago di carbone nell’aria. Una città di un brutto futuro pare Milano stamane, e noi cloni, replicanti smarriti che assolvono obbedienti ciò a cui sono comandati. Ma, in corso Buenos Aires, quasi all’angolo con via Vitruvio, in una tabaccheria la padrona sorride contenta. E ti stupisce, tanto che allunghi lo sguardo dietro il banco, a scoprirne la ragione. Da là dietro, dal basso, arriva la voce di una bambina così piccola che non la riesci a vedere – il balbettio ridente di quando da poco hanno imparato a camminare, e la realtà è tutta una meraviglia da toccare. La tabaccaia risponde, e sorride lei stessa, che è vecchia, come una bambina. Tu te ne vai zitta, e grata. Sotto al cielo di piombo, nella frenesia che ci fa immemori di ogni cosa, hai incrociato il miracolo che muove il mondo, eternamente e ancora.
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