
Una “civitas” per l’umanità
Proponiamo ai lettori la parte centrale dell’omelia pronunciata dal cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia, in occasione della festa del Santissimo Redentore il 18 luglio scorso.
UNA TRANSIZIONE TUMULTUOSA
(…) 3. La caduta del Muro di Berlino, che ha segnato simbolicamente la fine dell’idea utopistica di storia preparata da tutta l’epoca moderna, si è paradossalmente prodotta quando il mondo si stava economicamente e tecnologicamente organizzando come una realtà globale. I non pochi avvenimenti di segno negativo verificatisi dall’89 in avanti – la prima guerra in Irak, la guerra in Afghanistan, l’11 settembre 2001, la seconda guerra in Irak, l’11 marzo di Madrid, l’escalation del terrorismo fondata sulla controfigura nichilista del martire (l’uomo-bomba), l’impasse radicale in Terra Santa, il permanere delle tante guerre dimenticate, la tragedia dell’Africa subsahariana, il dirompente affacciarsi sulla scena mondiale dell’India e della Cina… e si potrebbe continuare ancora a lungo – ci pongono di fronte ad una fase geopolitica inedita, costringendoci ad interrogativi non di rado angoscianti. Cosa viene chiesto a noi quali liberi co-attori della storia in questa fase spesso tumultuosa? Come interpretare questi nostri tempi?
SPIEGAZIONI INSUFFICIENTI
4. Le non poche analisi a disposizione offrono stimoli e ragioni, ma spesso danno l’impressione di non saper cogliere le radici ultime di questa transizione epocale. Mi limito a due temi.
La tesi che oggi sia in atto un incontro-scontro di civiltà non spiega tutto. Anche quando a sostegno di tale tesi si mette in campo la convinzione che oggi saremmo di fronte al riproporsi, sotto nuove forme, delle antiche guerre di religione. È questo un giudizio che fa leva sul tragico fenomeno del fondamentalismo religioso senza coglierne la natura ideologica. Il fondamentalismo religioso è l’esito dell’azione che l’ideologia compie sulla religione quando penetra in essa e come un parassita corrosivo se ne impossessa. A questo gravissimo rischio gli uomini delle religioni prestano il fianco quando riducono la forza critica della fede che sempre abita in esse, purificandole.
Fede e religione sono invece inseparabili.
Come la fede non può mai prescindere dalla religione perché l’individuo, «uno di anima e di corpo» (Gaudium et Spes, n. 14), è costitutivamente immerso in società e normalmente la esprime attraverso i riti e i costumi dei diversi popoli cui appartiene, così la religione, per sua natura, non può mai svincolarsi dalla tensione alla verità trascendente su Dio e sull’uomo cui incessantemente la fede la chiama. Allora lo scontro di civiltà, se esiste, non è provocato dalle religioni, ma dalla loro riduzione ideologica. L’ideologia spezza il legame fede/religione e piega la religione ai suoi fini, che non sono mai privi di menzogna perché nascondono la loro radice.
Parlare ottimisticamente di incontro o pessimisticamente di scontro di civiltà e di religioni può così diventare involontariamente ideologico.
Ad un esame accurato appare incapace di spiegare interamente la fase storica in atto anche la critica alla globalizzazione economica e tecnologica oggi imposta dalla mondialità delle reti di comunicazione. L’inaccettabile tragedia della miseria, dell’ingiustizia e dello sfruttamento in tutte le sue forme, ma soprattutto in quelle endemiche del Sud del pianeta, in particolare dell’Africa sub-sahariana, va drasticamente combattuta, ma non sembra possa essere fatta meccanicamente dipendere – come non poche e documentate analisi hanno mostrato – dalla globalizzazione in se stessa. Anzi in proposito sono da evitare derive utopistiche che ripropongano, sotto mentite spoglie, una storia intesa come l’attuarsi di un assoluto razionale in cui per giunta i buoni e i cattivi siano manicheisticamente sempre gli stessi e anche i più complessi ed imprevedibili avvenimenti vengano ridotti ad una ossessiva conferma dell’“idea” aprioristicamente posta come chiave interpretativa.
IL CORAGGIO DELL’UNITÀ
5. Come vivere allora criticamente ed attivamente la fase storica in atto? Bisogna ritornare con umiltà al dato reale. Cosa ci indica? Popoli che fino a qualche decennio fa potevano avere contatti e scambi economici, politici e culturali limitati, sia in quantità che in qualità, sono chiamati oggi, di fatto, ad un intreccio che li coinvolge direttamente e con sorprendente rapidità.
Le società contemporanee – senza in questo sostanziali differenze tra le occidentali e le orientali – sembrano non saper fare altro che giustapporre le diverse identità, senza riuscire a farle veramente incontrare. C’è chi, dominato dalla paura, si trincera dietro un’egoistica affermazione dell’identità. Altri, convinti sostenitori dell’incontro tra i differenti, fondano tale processo sul relativismo nei confronti della verità. Uomini e popoli sembrano condannati ad una sterile alternativa: rimanere ingabbiati nella propria identità o andare incontro all’altro come figure senza volto. L’esito è un contesto sociale sì multietnico, multiculturale e multireligioso, ma in cui il riconoscimento del molteplice, quando c’è, è piuttosto confessione dell’impotenza del soggetto (singolo o popolo) nei confronti dell’unità. Siamo sempre più spettatori allarmati ma rassegnati di società profondamente divise se non disintegrate.
Né basta allo scopo accostare etnie, culture e religioni l’una all’altra, elaborando pratiche e dottrine basate sulle categorie della tolleranza e dell’integrazione calcolata, facendo leva in maggior o minore misura sul principio di reciprocità. Questi fattori sono necessari, almeno in questa fase, ma appaiono insufficienti. Si impone come improcrastinabile l’urgente compito di costruire una nuova civiltà su scala mondiale. Una vera civitas per l’umanità che promuova con decisione una pluriforme unità. Essa ha necessariamente bisogno di un nuovo governo mondiale che non potrà essere semplicemente lasciato ai progetti – pur necessari – dei capi di Stato delle maggiori potenze e neppure allo spontaneo ribollire di movimenti antiglobali, anche se portatori di istanze di pace e di giustizia.
Da dove attendersi, allora, questa nuova civiltà dell’umanità foriera di un’autentica vita buona a livello personale e sociale?
VERSO UN “METICCIATO DI CIVILTÀ”?
6. Per suggerire i criteri di un percorso che ci possa mettere sulla strada della realizzazione pacifica di questa nuova civiltà vogliamo qui indicare, tra i tanti, due elementi fondamentali.
Fra poco, nel Prefazio ci rivolgeremo a Dio dicendo: «Tu rinnovi l’universo e doni all’uomo il vero senso della tua gloria». Il primo criterio che richiamiamo con umiltà ma con forza, sulla scorta del lungo ed articolato magistero sociale della Chiesa, può essere indicato con una celebre affermazione del cardinal De Lubac secondo la quale l’uomo può costruire una società senza Dio, ma questa finirà per essere una società dell’uomo contro l’uomo.
Dio guida la storia. Con la Sua libertà ne è il primo grande artefice. A questa nuova fase di civiltà è un Padre che ci chiama. Al di là delle contraddizioni e degli errori e disposti ad un costruttivo sacrificio gli uomini debbono riconoscere che Dio è la base della «speranza che non delude» (Rm 5, 5), come ci ha detto la liturgia di oggi.
Non a caso, finita la storia utopisticamente intesa, uomini di tutto il mondo tornano alle religioni. Esse lasciano alla storia, cioè alla libertà e agli avvenimenti, tutti i loro diritti, radicando il presente nella memoria feconda del passato mentre lo aprono al futuro. Al singolo e ai popoli è di nuovo consentita la pratica della vita buona che l’idea utopistica di storia aveva totalitariamente impedito.
Affrontando con vigore il ritorno massiccio del sacro l’Europa può trovare nelle sue radici cristiane la via della purificazione da ogni relativismo e sincretismo religioso.
Il secondo fattore in grado di favorire la pluriforme unità di una nuova civitas mondiale è la fiducia nella comune appartenenza di uomini e popoli all’unica famiglia umana. Tutti gli uomini hanno in comune una esperienza elementare legata alla dimensione degli affetti e del lavoro che attraversa ogni diversità di razza, di cultura e di religione. Questo incoercibile dato di fatto non può essere negato, anche se il ricorso alla categoria di natura umana spaventa molti. Ma la comune natura umana non è da intendere come un nucleo monolitico da rinvenire dopo aver eliminato le diversità quasi fossero incrostazioni secondarie.
Questo atteggiamento culturale è l’esito superficiale del presuntuoso progetto della modernità che si presumeva “critica” e che l’illuminismo, lungi dal soddisfare nelle sue istanze profonde, ha ulteriormente radicalizzato. La natura è sempre aperta allo scambio con la cultura e perciò incontra e valorizza le diversità di razza, di cultura, di religione. È sbagliato opporre ciò che è comune a tutti gli uomini alle identità singolari, perché l’individuo è sempre originariamente immerso in comunità. Un’antro-pologia adeguata riconosce che l’unità nell’uomo e nella famiglia umana vive nella polarità tra individuo e comunità, tra particolare ed universale. È lo stesso principio della differenza (alterità), introdotto in Occidente dalla riflessione sulla Trinità, ad assicurare l’insopprimibile carattere libero e perciò anche storico della natura umana. Per questo la nuova civiltà dell’umanità è chiamata al rispetto profondo dell’alterità che esalta la differenza. Questa, quando è rettamente intesa, non spezza l’unità che trattiene ogni diversità che non diventi sopruso ed oppressione. Uomini e popoli, culture e religioni possono concorrere a questa nuova civiltà mettendo in campo ogni particolare ricchezza relativa alle fisionomie loro proprie. Senza relativismi e sincretismi. La dinamica natura umana poggia sul principio di “pluriformità nell’unità” e non, viceversa, su quello di “unità nella pluriformità”. Se il primato tocca all’unità, allora bisogna avere il coraggio dell’unità senza temere ossessivamente le “contaminazioni”.
Il processo di mondializzazione in atto domanda un’ampia unificazione di uomini e popoli. In maniera del tutto inedita sul piano qualitativo e quantitativo, siamo chiamati a sperimentare qualcosa di analogo a quanto toccò anche a popoli antichi.
Per indicare il nuovo soggetto che nasce dall’unità dei diversi si può forse parlare di “meticciato di civiltà”. Il termine è presente nella tradizione linguistica antica e moderna anche nel senso figurato di “mescolanza di culture e fatti spirituali distinti”, che consegue all’influenza reciproca di civiltà che entrano in contatto tra loro.
Per limitarci all’Occidente non mancano, infatti, esempi di incontro e di fusione tra popoli e culture che hanno dato origine a nuove civiltà. Al di là di ogni rigoroso giudizio storico è possibile scorgere processi di questo genere nell’incontro tra romani e barbari, oppure alla nascita dell’America, in particolare di quella figlia dell’evangelizzazione spagnola. Ma, forse, il più eclatante esempio di questo meticciato di civiltà, nato sulla base della comune natura umana, da cui scaturisce la famiglia dei popoli, ha visto la luce a partire dalla stessa Chiesa apostolica magistralmente descritta dall’affermazione di Paolo: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28). A questa forte dichiarazione dell’Apostolo fece eco Paolo VI con la memorabile descrizione della Chiesa come «realtà etnica sui generis».
La nuova civiltà dell’umanità non può nascere su compromessi di natura economica, giuridica o politica. Neppure su compromessi tra le religioni. Né basterà a garantirla un concetto di laicità degli Stati e della loro unione mondiale fondata su un’idea astratta di neutralità, da cui sia bandita ogni soggettività religiosa, nazionale e culturale.
Per assolvere questo grave ed indilazionabile compito di unificazione che ci sta davanti occorre costruire una democrazia sostanziale su scala mondiale che riconosca l’inalienabile sacrario di ogni persona attraverso l’esercizio concreto dei diritti fondamentali individuali, sociali, politici, culturali ed economici. E bisogna dire con forza che l’articolata sequenza di questi diritti va mantenuta in tutta la sua integralità. Essi stanno tutti insieme o cadono tutti insieme. A garantirli sono i due pilastri della solidarietà e della sussidiarietà.
Sulle basi qui indicate in modo inevitabilmente generale non solo ogni uomo si dovrà chinare sul bisogno di ogni suo simile – a partire dal più povero ed emarginato –, ma ogni nazione dovrà chinarsi su ogni altra nazione, sospinta dalla nobile gara tesa ad edificare la civiltà dell’amore (Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, n. 33). Anche l’economia dovrà trovare vantaggio a piegare la sua logica per affermare un equo profitto, rispettoso del primato del lavoro e ancor prima del suo soggetto e pertanto capace di fare spazio al capitale umano e al capitale sociale, facendosi carico dell’effettiva crescita dei numerosi popoli ancora condannati alla miseria.
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