
Terra di nessuno
Un treno e mille ignoti destini
Milano, 23 settembre. Il treno è in leggero ritardo, e verso Piacenza accelera, corre, così veloce che sul nastro parallelo dell’autostrada del Sole sembrano quasi ferme, le automobili. È l’ora dell’imbrunire, quando la pianura affonda adagio nel buio; ad ogni minuto più indistinti i filari di pioppi, e le sagome delle cascine. Il Frecciarossa corre orgoglioso sulla sua strada d’acciaio; mi immagino i fari della locomotrice che squarciano improvvisi la notte, luminosi occhi sbarrati.
Poi l’oscurità si accende di luci sempre più numerose e allineate; le prime case dell’hinterland di Milano, palazzoni sgraziati tra cui si snodano gli svincoli della Tangenziale. Impercettibilmente ora il treno rallenta, come se nel dedalo di scambi di Lambrate dovesse individuare la sua strada; come un animale che annusi, per tornare alla tana, le stesse sue impronte. E tuttavia anche quando va piano il Frecciarossa divora la periferia, così che fatichi a riconoscerne i viali. La stazione di Lambrate è solo un rapido bagliore di luce diaccia, azzurrina, che subito scompare dentro a un buio fondo – giacché, intanto, la notte è calata. Sferragliano le ruote, si inclina il treno a una curva e di nuovo accelera; le case scorrono via veloci, e nello spazio di un attimo mostrano al di là delle finestre attimi di vita domestica, una tavola apparecchiata, una tv accesa; e cortili vuoti, e rampe di scale deserte illuminate da luci troppo fioche, per risparmiare.
E finalmente un’altra raffica di scatti metallici, e il treno che rallenta sugli scambi della Stazione Centrale. Ora venti binari corrono paralleli sotto agli alti fari; è geometria ramificata, bosco d’acciaio l’ingresso in una grande stazione. Rilucono di un azzurro freddo i binari; qui e là, qualche vagone merci sembra dimenticato da un tempo immemorabile. E buio e luci e riflessi sembrano la materia di un sogno.
Il Frecciarossa ora ha fretta e, certamente, la precedenza. Tutti i semafori gli danno il via libera e lui procede sicuro: nel labirinto il treno dal lungo muso rosso sa bene la sua strada.
Io, me ne sto incollata a un finestrino, a guardare. Mi piace tornare a casa, e sapere che in stazione qualcuno mi aspetta. Ma soprattutto mi seduce quel dedalo di binari lucenti sotto ai fari dello scalo, e il “clang” sonoro degli scambi, e il procedere senza esitazioni del treno dentro la notte ormai fonda; mi affascinano i binari che appena fuori dalla stazione si diramano e si allontanano verso opposte, molto remote destinazioni. Sembra metafora di una città di uomini questo incrociarsi, unirsi e poi di nuovo divaricare i cammini; a noi ignoto, l’annodarsi di mille misteriosi destini. Rallenta adesso, entrando nella luce della Stazione Centrale, il treno. Sotto alle arcate di ferro e di vetro i colori, da onirici, tornano reali. Ecco i tuoi, marito e figli, e anche il cane che tira il guinzaglio – col suo olfatto, senza vederti ancora ti ha già riconosciuto. Grande, affollata, viva la Centrale; ma ti rimane in mente come un’ombra enigmatica quella fredda azzurra foresta, là fuori, dove nessuno si avventura; dove le strade si dividono e corrono lontano, migranti che partono per sempre, e non torneranno.
39/2012
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