Un paese senza sceriffo

Di Persico Roberto
14 Febbraio 2008
Con Giuliano Ferrara a vedere il film dei fratelli Coen. «Bello, ma mancano le pagine del diario di Ed Tom Bell, quelle che danno la cifra tragica e metafisica al romanzo di McCarthy»

«È come una tragedia greca senza coro». L’immagine che Giuliano Ferrara propone per rendere l’idea di Non è un paese per vecchi, il film dei fratelli Joel e Ethan Coen tratto dal romanzo omonimo di Cormac McCarthy, in uscita nelle sale italiane questa settimana, difficilmente potrebbe essere più efficace. «Non è un film fatto male – spiega – anzi, per molti aspetti è un film molto bello. C’è tensione, c’è una bellissima luce, si respira aria di America vera. I Coen hanno temperato se stessi, sono stati capaci di affrontare l’opera di McCarthy con l’ironia, col distacco necessari a non “mangiarsi” l’opera. Perché non è facile fare un film non da una sceneggiatura ma da un grande romanzo. E loro sono riusciti a rispettarlo quasi del tutto.
“Quasi”? Cosa manca?
Manca il protagonista. Il protagonista assoluto, che nel romanzo è lo sceriffo Ed Tom Bell e il suo diario che, in quelle pagine straordinarie in corsivo che aprono ogni capitolo, fa da controcanto alla vicenda, ne mostra le ragioni profonde. Tutto ciò, nel film, quasi scompare. Rimane, certo, il personaggio dello sceriffo, interpretato in modo straordinario da Tommy Lee Jones – come recita semplicemente con le rughe! -, ma non ha il ruolo, il peso che ha nel romanzo, che il suo diario ha come voce profonda del romanzo. Certo, non era facile renderlo. Si sarebbe potuta usare una voce fuori campo, come faceva una volta Orson Wells, ce n’è un accenno all’inizio, ma poi scompare. Oppure si sarebbe potuto inserire nelle scene del film, in alcuni dialoghi, come pure qua e là i Coen fanno. Ma sono solo accenni, echi senza consistenza. Così il film resta privo del suo protagonista, del protagonista vero.
Ma il film – e il libro – raccontano la storia di Llewelyn Moss e di Anton Chigurh, il bravo ragazzo che si imbatte per caso in una valigia da due milioni di dollari e l’assassino psicopatico che la vuole recuperare.
Moss e Chigurh non sono i protagonisti. Certo, si racconta la loro vicenda, ma loro sono come i pupi, le marionette del teatro dei pupi; o come i personaggi della tragedia greca, che agiscono mossi da un destino più grande di loro. E nella tragedia greca il protagonista, quello che dà voce al destino, è il coro. Quel che nel romanzo di McCarthy è il diario dello sceriffo Bell, e che nel film quasi scompare. Ne rimane qualche indizio, come in quell’espressione bellissima in cui Bell sintetizza la sua idea della vita: «È come qualcosa che ti viene addosso e tu non puoi evitare». Questa è la cifra tragica del libro: il sentimento della violenza totale, metafisica, che investe la vita e che devi raccontare, che non puoi evitare. È il senso del personaggio di Chigurh, l’assassino paranoico che non vuole solo riprendersi i soldi, ma vuole distruggere, annientare: ha promesso che ucciderà e lo farà per mantenere la promessa. Con tanta indifferenza che offre alle sue vittime di giocarsi la vita a testa o croce. Per lui, in fondo, è lo stesso: vita o morte sono uguali, è un nichilismo abissale. Che il coro tragico, il diario di Bell, registra, ma il film disperde.
Non sarebbe stato impossibile fare di meglio. In fondo, come hanno inserito nel film qualche spezzone del diario sotto forma di dialoghi, avrebbero potuto mettere anche il resto.
Avrebbero potuto. Sì, avrebbero potuto farlo. E allora perché non l’hanno fatto? Perché sono due registi liberal di Hollywood. E da Hollywood, o da New York, a El Paso, al Texas di McCarthy, c’è un passo troppo lungo. C’è un abisso incolmabile. Se avessero inserito tutto il diario avrebbero dovuto metterci l’abbeveratoio di pietra che conclude il libro, promessa di una certezza che permane stabile sotto tutta l’acqua che scorre; avrebbero dovuto metterci il dialogo con la vecchia femminista che, cito a memoria, dice:  «Non voglio che mia figlia cresca in un paese dove non è possibile abortire» e lui risponde: «Stia tranquilla, non solo crescerà in un paese in cui potrà tranquillamente continuare ad abortire, ma quando sarà stufa di lei potrà tranquillamente dare il benservito anche a lei». Insomma avrebbero dovuto accettare tutta la straordinaria forza profetica che il romanzo di McCarthy contiene. Ma questa è politicamente, culturalmente, ideologicamente scorretta. E i Coen non hanno avuto il coraggio di andare contro il proprio establishment. Forse hanno temuto che se avessero fatto il film secondo la ratio del romanzo ne sarebbe venuto fuori un racconto edificante, un messaggio pedagogico. Ma sbagliano. In McCarthy non c’è niente di edificante, di pedagogico. McCarthy si limita a liberare la mente, a liberarla nel momento stesso in cui la opprime con una verità, con un elemento di diversità sconvolgente.

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.