«Un mondo dove Trump sostiene Putin è un mondo pericoloso»

Di Giancarlo Giojelli
27 Febbraio 2025
Intervista a Natan Sharansky, sopravvissuto a tredici anni di prigionia in un Gulag sovietico. «Noi dissidenti sapevamo che gli Stati Uniti ci sostenevano. Ora il presidente Usa ripete la linea dettata dal Cremlino»
Il presidente russo Vladimir Putin con quello statunitense Donald Trump, Osaka, Giappone, 28 giugno 2019 (foto Ansa)
Il presidente russo Vladimir Putin con quello statunitense Donald Trump, Osaka, Giappone, 28 giugno 2019 (foto Ansa)

«Sono assolutamente sconvolto» dice a Tempi Natan Sharansky dopo le prese di posizione del presidente statunitense Donald Trump contro quello ucraino Volodymyr Zelensky. «Un mondo dove un presidente americano sostiene Vladimir Putin è un mondo pericoloso».

Sharansky sa bene di cosa parla. Negli anni Ottanta fu uno dei più famosi esponenti del dissenso sovietico. Nato nel 1948 nel Donetsk ucraino (allora parte dell’Unione Sovietica e ora territorio occupato e rivendicato dai russi), era diventato, giovanissimo, il più stretto collaboratore di Andrej Sacharov, il fisico nucleare russo premio Nobel per la pace per la sua opposizione alla dittatura comunista, rinchiuso in un ospedale psichiatrico perché considerato un traditore della patria. La stessa accusa per la quale Sharansky fu condannato nel 1977 a 13 anni di lager in Siberia.

La sua colpa più grave non fu solo quella di aver fondato un comitato di dissidenti e di aver appoggiato Sacharov nella sua battaglia per i diritti umani. Sharansky, di origine ebrea, aveva chiesto un visto per Israele che gli era stato rifiutato, come a molti altri. Li chiamavano i “refusnik”, i rifiutati. Israele era uno Stato amico degli Stati Uniti e il suo progetto di viaggio fu interpretato come la prova del suo tradimento e della sua intenzione di consegnare agli americani i progetti nucleari cui aveva lavorato con Sacharov. 

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Sono un uomo libero

Fu liberato nel 1986, scambiato con due spie russe arrestate dagli Stati Uniti. Portato a Berlino, attraversò il celebre “ponte delle spie” su cui avvenne lo scambio camminando a zig zag, anziché dritto come gli era stato intimato di fare. Lo fece come atto di sfida: “Sono un uomo libero e vado in libertà per la mia strada”, sembrava dire.

In Israele fu accolto come un eroe, fu più volte ministro in diversi governi, fondò “Zionism Forum”, un’organizzazione sionista che raccoglieva ex dissidenti sovietici, e nel 2005 fu inserito da Time all’undicesimo posto nella lista degli scienziati e pensatori più influenti al mondo. Presidente della Agenzia ebraica mondiale, è stato tra i fondatori di Babij Jar, il museo dell’Olocausto ucraino che ricorda il massacro da parte dei nazisti di centomila ebrei.

Vaclav Havel (a sinistra) con Natan Sharansky (al centro, Praga, Repubblica ceca, 6 giugno 2007 (foto Ansa)
Vaclav Havel (a sinistra) con Natan Sharansky (al centro), Praga, Repubblica Ceca, 6 giugno 2007 (foto Ansa)

Cosa penseranno i dissidenti?

Non è difficile immaginare lo sconcerto di Sharansky quando ha sentito Trump accusare Zelensky di essere un dittatore e aggressore della Russia e quando ha visto Israele e Stati Uniti votare come Russia e Corea del Nord sul non riconoscimento dell’integrità territoriale dell’Ucraina. 

«Posso solo immaginare come i prigionieri politici e i dissidenti nelle galere russe si sentano oggi», dice a Tempi. «Noi dissidenti, chiusi nelle nostre celle in Siberia negli anni Settanta e Ottanta sapevamo che, da qualche parte là fuori, c’era un mondo che ci sosteneva e ci difendeva. Il presidente degli Stati Uniti era Ronald Reagan. Ora Trump ripete la linea dettata dal Cremlino, “Zelensky non è un leader legittimo”, in perfetto stile sovietico. Quando quelle parole vengono da Putin, che si atteggia a eterno leader della Russia, sono ridicole. Ma quando le stesse parole vengono pronunciate dal presidente degli Stati Uniti diventano allarmanti e tragiche. Sono parole che fanno a pugni con il senso comune».

«Solo un anno fa – prosegue Sharansky – Aleksej Navalny fu ucciso da Putin in prigione. Prima di morire mi aveva scritto poche lettere in cui diceva che quello che vedeva nelle prigioni russe era lo stesso mondo che io avevo sperimentato nelle carceri dell’Urss. “Ma – mi scriveva – questa è la prova che, come è crollata l’Unione Sovietica, così crollerà anche la Russia di Putin”. Io mi domando cosa possano oggi pensare e come possano sentirsi centinaia di russi mandati in prigione per aver osato dire che Putin è l’aggressore, quando sentono Trump accusare Zelensky».

Fiori in memoria di Aleksey Navalny davanti all'ambasciata russa di Berlino, Germania, 21 febbraio 2024 (Ansa)
Fiori in memoria di Aleksey Navalny davanti all’ambasciata russa di Berlino, Germania, 21 febbraio 2024 (Ansa)
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Le lettere scambiate con Navalny

Navalny è per Sharansky l’erede del coraggio e della forza dei dissidenti che si opposero al regime sovietico. Un anno fa, poco prima che morisse, rispose a quella sua lettera: «Caro Aleksej, ho provato una sorta di shock nel ricevere la tua lettera. Il pensiero stesso che provenga direttamente da uno shizo (la cella di isolamento punitivo, ndr), dove hai già scontato 128 giorni, mi emoziona come si emozionerebbe un vecchio ricevendo una lettera dall’università dove ha trascorso gli anni della giovinezza». L'”università” di Sharansky era il carcere dove aveva imparato la forza della persona libera in qualunque condizione. «Navalny – spiega – era pericoloso per la tirannia russa per due ragioni: ha fatto più di ogni altro per raccontare al mondo la vera natura dittatoriale della leadership di Mosca e ha sfidato il sistema dimostrando che è possibile, anche in prigione, rimanere uomini liberi fino all’ultimo respiro».

Sharansky a Navalny si erano scritti alla vigilia di Pesach, la Pasqua ebraica che celebra la liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù dell’Egitto. «Pesach è l’inizio della nostra libertà e della nostra storia come popolo – scriveva il primo al secondo -. Questa sera gli ebrei di tutto il mondo leggono le parole: “Oggi siamo schiavi, domani persone libere. Oggi siamo qui, l’anno prossimo a Gerusalemme”. In questi giorni mi siedo alla cena della festa indossando una Kippah fatta in cella 40 anni fa con una pezza da piedi da un altro detenuto ucraino». Navalny morì poco dopo in un gelido lager, ufficialmente per una “sindrome da morte improvvisa”.

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1 commento

  1. MARIA PAGETTI

    Trump stringe la mano di Putin, come l’Europa, con il consenso di Biden, ha stretto la mano di Alyvev mentre egli teneva sotto assedio gli armeni dell’Artsakh.
    A me pare che l’ideologia liberal che l’America ci ha regalato negli anni del recentissimo passato abbia avuto tante priorità, ma non quella di assicurare la libertà degli uomini.
    Benedetto XVI a suo tempo ci aveva allertato parlandoci di dittatura del relativismo.

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