Un italiano a Baghdad

Di Giuseppe Parma
22 Aprile 2004
In nome della “pace” l’Italia dovrebbe seguire la Spagna e darsela a gambe dall’Irak? Ditelo agli italiani che costruiscono la vera pace. Per esempio ricostruendo asili a Baghdad. «Dove la gente ci vuole bene». Un dubbio? «Sì, dopo dieci anni di Medio Oriente ho capito almeno una cosa: che quello che succede qui non lo capisci guardando la Tv». Dal diario di un cooperatore (Avsi) in Irak

Voglio subito essere sincero mettendo in chiaro una cosa fondamentale, non ho mai provato il viaggio in automobile da Baghdad ad Amman (almeno 12 ore), che rimane una delle cose più pericolose che ci sono in Irak.

Atterraggio a spirale
Ho sempre volato con un aereo di una compagnia sconosciuta ai più, ma famosa, per serietà, agli addetti ai lavori che, grazie anche a fondi che riceve dalle Nazioni Unite, garantisce l’unico collegamento sicuro tra il resto del mondo e Baghdad. Dopo due ore di volo in un aereo bielica da circa 15 posti, si arriva sopra l’aeroporto di Baghdad, unica zona sicura, e all’interno della sua area, c’è il famoso atterraggio a spirale. La prima volta che il pilota lo ha descritto, prima di decollare dal piccolo aeroporto cittadino di Amman, indicandoci inoltre il frigo bar sotto un sedile con dentro alcune lattine di bibite, unica accomodation della compagnia, non mi sarei immaginato che poi sarebbe stato così. Mia moglie mi dice sempre che ho una grandissima immaginazione, forse anche data dalla mia inclinazione professionale, sono un architetto, ma quella volta la realtà mi ha superato. Per cui è inutile, credo, cercare di spiegarvi con molte parole cosa significhi un atterraggio a spirale. Tenere il naso spiaccicato conto il finestrino, se sei da quella parte o il sedere alzato dieci centimetri dal sedile se sei sull’altro lato per circa quattro o cinque minuti ininterrottamente (se non sei distratto a vomitare).

Dal Kosovo all’Irak
Mi rendo conto che sono partito senza presentarmi. Dunque che sono un architetto l’ho già detto, che ho una moglie stupenda (in tutti i sensi ma soprattutto perché mi permette di fare anche questo lavoro) pure, che ho, per ora, quattro figli di cui, purtroppo, solo il primo maschio e che è l’unica cosa che sino ad ora sono riuscito a realizzare con grande soddisfazione, non l’ho ancora scritto. Poi ci sono le cose marginali e cioè che ho uno studio con altri due architetti, che tra il progetto di una palazzina in centro a Milano o di un bagno per disabili in periferia abbiamo, svolgendo consulenze per una famosa Ong italiana, ricostruito ottocento case e quattro scuole in Kosovo a partire dal 15 agosto del 1999 (cioè due mesi dopo la fine della guerra), elaborato un progetto per facilitare l’accesso alle nuove tecnologie alle persone disabili, in collaborazione con le Nazioni Unite in Giordania ed ancora progettato una scuola in Kenya, coordinato un progetto di ricostruzione in Irak, ecc. Ecco il punto, l’Irak. Anzi ero arrivato all’aeroporto di Baghdad: bello e deserto. Un imponente servizio di sicurezza per così pochi voli. Boh, prevedranno uno sviluppo vertiginoso, come l’atterraggio. Al controllo dei passaporti i primi irakeni, computer portatile e telecamera per farti la foto aggiungendo la scannerizzazione di quella sul passaporto (credo perché a volte differente). Controllo maniacale dei bagagli e poi al pulmino che ci porterà fuori, all’inizio dell’autostrada poiché fino a lì nessuno può venirti a prendere (ricordate zona sicura non per niente). Mi avevano detto che le frontiere dell’Irak sono un colabrodo, questo non è sicuramente un esempio, anzi.
Fino a quando non sono arrivati i cellulari è sempre stato abbastanza difficoltoso mettersi d’accordo con l’autista per dove vederci: una volta arrivavi tardi, una presto, una volta gli americani non lo facevano passare al checkpoint, ecc. Il thuraya (telefono satellitare) non è cosa semplice da gestire, devi essere fermo, in posizione, all’aperto. Utilizzare i taxi (che poi non ci sono neanche) non è cosa molto sicura, già otto mesi fa.

Traffico e checkpoint
La prima volta che sono stato a Baghdad ho utilizzato una scassatissima Fiat Regata, con il tipico parabrezza incrinato da un colpo d’arma da fuoco. è stata la volta che ho avuto più paura per la mia incolumità, va bene non farsi notare troppo per motivi di sicurezza, utilizzando macchinoni, però neanche cercare di morire in un banalissimo incidente di automobile. Ora siamo messi molto meglio : abbiamo una Renault 19 del 1986 molto ben tenuta (il nostro nuovo autista è anche meccanico oltre ad una decina d’altri lavori). Il traffico è una cosa incredibile, una volta ho passato quarantasette minuti in coda ad una rotonda per passare un ponte sul Tigri. Dopo le due del pomeriggio le cose vanno molto meglio, le banche e gli uffici pubblici cominciano a chiudere. La gente va a casa a mangiare e di solito ci resta. Dopo le quattro tutto ricomincia a causa dello shopping anche se però basta evitare le zone degli elettrodomestici. Ma poi saranno questi i veri motivi del traffico? Delle volte sei fermo e pensi; «ecco adesso passiamo il blocco», e poi non c’è niente, misteri. L’ultima volta ero in prima fila: carro armato in mezzo all’incrocio, noi dovevamo solo fare inversione per prendere la sopraelevata dal lato opposto, niente da fare tutto chiuso. Il nostro autista è bravo, capisce al volo cosa vuole il ragazzotto americano che ci sta puntando il mitragliatore addosso (senza sicura), e timidamente spegne il motore. Il poliziotto irakeno, che stava molto bonariamente a suo modo, gestendo l’incrocio è messo da parte. Poverino si prenderà la maggior parte degli insulti da parte di normalissimi cittadini arrabbiati perché fermi ad un incrocio senza sapere il perché. Non sa che dire alle domande di tutti perché neanche a lui nessuno ha spiegato cosa succede. Passano dieci minuti e il ragazzotto, credo dai lineamenti d’origini ispaniche, capisce che siamo italiani e ci rivolge un timido sorriso, senza farsi vedere dagli altri. Quaggiù c’è una certa diffidenza, come in tutti i paesi arabi, rispetto allo straniero e poi non si sa mai chi hai di fronte, e per noi di fianco, meglio essere prudenti. Passano altri dieci minuti e le grida e le strombazzate ormai sono irresistibili, ma i soldati se la prendono con molta calma. Improvvisamente si capisce cosa stanno facendo: controllano la struttura portante della sopraelevata, credono che sia minata. Le grida ed il resto smettono, segue un silenzio quasi di ringraziamento oserei pensare, gli americani dopo l’ok degli artificieri, salgono sui vari mezzi ed in pochi attimi si volatilizzano.

Le caserme di Saddam? Lunghe venti minuti d’automobile
Sono sempre più o meno stato a Bagdad, però è stata la volta che ci siamo diretti a circa 30 Km verso nord, dove si trova la scuola che dovremo riabilitare indicataci dall’Unicef, che sulla strada per il ritorno, cambiando direzione a causa del traffico (sempre lui grande denominatore della quotidianità di noi tutti), ho visto una cosa che mi ha molto impressionato, soprattutto in un paese dove per alcuni mesi ci sono almeno 45 gradi. Durante i miei viaggi ho capito che in Irak la dittatura amava fare le cose alla grande, come ad esempio le caserme intorno alle città. Tu mentre vai sull’autostrada, ad un certo punto inizi a vedere un muro di cinta, allora ti fai dire cos’è, e di solito è una caserma appunto. Passano almeno venti minuti prima che il muro svolti ortogonalmente. Gli americani, per risolvere un problema in maniera urgente, hanno fatto una discarica a cielo aperto, utilizzando l’enorme spazio della caserma ed il famoso muro. Ho visto, tra una montagnetta e l’altra, non so più quante abitazioni, fatte da quattro mattoni di cemento e un telone come tetto oppure riutilizzando i vecchi edifici semi distrutti durante la guerra e in qualche modo rappezzati ma soprattutto chissà come bonificati dai vari ordigni, con dentro donne e bambini. Alcuni di questi in mezzo ai vari cumuli a cercare chissà che cosa. Ma l’Irak non è un paese ricco, e tutti non sono lì a fare ogni sforzo per sfruttarlo? Stando in mezzo al popolo-popolo non si percepisce questo: c’è tantissima povertà in un paese che aveva perso l’abitudine ad esserlo.

Dall’amico irakeno un vestito per mia figlia
Tutti ti vogliono un gran bene, almeno a me, e l’ultima volta prima di partire dall’Italia ho scattato qualche foto digitale mentre la mattina la mia famiglia faceva la colazione. Erano mesi che gli amici irakeni aspettavano di conoscerli, anzi mia moglie, come al solito, la dovrò portare prima o poi, ma non avrei dovuto lasciarmi scappare, mentre a casa dell’imprenditore irakeno guardavamo le foto, che Elisabetta (tre anni) è la mia preferita. Ultimo giorno la partenza, l’aereo è sul tardi ma conviene arrivare in zona aeroporto almeno tre ore prima, anche con tutta la buona volontà almeno un ora al checkpoint te la devi fare e in quel momento ne approfitti per fare il rito della consegna dei vari regali, che ho ricevuto durante la missione, all’autista con la solita frase: «non ho spazio in valigia, dai li prendo la prossima volta lo sai…» ma mai mi sarei aspettato di vedermi tirare fuori un vestitino da parte della sua bambina alla mia preferita… Dopo quasi dieci anni di Medio Oriente non ho ancora capito bene come funzionano le persone, e come posso pensare di capire come funzionano le cose in questo bellissimo paese ascoltando solo la Tv?

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