
Un incubo figlio di un sogno
Non c’è nulla di eccezionale nelle due notizie del mese intorno alla Libia: l’annuncio della “privatizzazione” dell’economia nazionale e la “scoperta” della Libia piattaforma girevole dell’emigrazione clandestina in direzione dell’Italia. Entrambe sono il risultato di un dato di realtà inconfutabile ancorchè poco conosciuto: la crisi economica libica.
I misteri dell’economia libica
Pronunciare diagnosi sullo stato di salute dell’economia in casa Gheddafi non è mai stato facile, stante la cronica inaffidabilità dei dati di fonte governativa e la tradizionale gestione patrimonialista e familistica delle risorse dello Stato. Le colonnine dei dati macroeconomici e spesso anche socio-economici dei rapporti della Banca Mondiale e dei vari organismi specializzati delle Nazioni Unite sono disperatamente vuote quando si arriva alla riga col nome “Libia”. Soprattutto alle voci “entrate del governo centrale”, “disavanzo pubblico”, “popolazione sotto la linea della povertà”, i dati mancano da decenni. Si sa soltanto che la Libia estrae 1,4 milioni di barili di petrolio al giorno, e che a seconda delle oscillazioni del mercato incassa fra i 6 ed i 15 miliardi di dollari all’anno. Per sapere qualcosa allora bisogna ottenere qualche confidenza da imprenditori in affari con Tripoli oppure leggere la stampa araba. Quest’ultima afferma che «la modesta qualità dei servizi sociali e sanitari cui ha accesso il cittadino libico non è assolutamente paragonabile con quella che riceve il suo simile negli stati petroliferi del Golfo. Il 60% degli abitanti della Libia, che ammontano a 6 milioni di persone, sono a scarso reddito» (Moheet, settimanale egiziano). «Una grande fetta della società libica non è più convinta delle giustificazioni che vengono fornite dai responsabili come al tempo dell’embargo economico… Anzi ha cominciato a reclamare la pubblicazione dell’ammontare delle rendite del petrolio, come avviene in Algeria» (al Hayat, pubblicato a Londra). Gli uomini d’affari confidano che sono quasi tre anni che la Banca centrale libica non firma lettere di credito per importi di rilievo alle imprese straniere fornitrici. Un tempo decine di imprese si presentavano agli sportelli della Lybian Arab Foreign Bank a Roma con crediti esigibili per miliardi di lire. Oggi devono accontentarsi di spiccioli: tutto è fermo, nonostante le sanzioni internazionali contro la Libia non siano più in vigore dal 1999, ed i soli Stati Uniti continuino a mantenere delle restrizioni.
Le vittime africane di Gheddafi
La verità sembra essere un’altra: da quando Gheddafi ha concepito il sogno di diventare il leader arabo di una superpotenza africana di 800 milioni di persone con capitale a Tripoli, di cui l’Unione Africana creata tre anni fa dovrebbe essere il germe, una grossa fetta della rendita petrolifera del Paese è stata destinata, naturalmente senza nessun controllo politico democratico, a questo progetto. Da qui la necessità di attirare capitali stranieri nel paese, anche attraverso “privatizzazioni” (da più di trent’anni l’economia libica è praticamente socialista, tutti i mezzi di produzione sono detenuti dallo Stato), per coprire i vuoti di bilancio che si sono creati. Il panafricanismo di Gheddafi ha accentuato un fenomeno già attivo da tempo: l’emigrazione degli africani sub-sahariani in Libia. Secondo Moheet gli africani immigrati in Libia sono ormai 2 milioni, ed i rapporti con la popolazione locale sono diventati deplorevoli: reazioni popolari nel 2000 causarono 600 morti fra di essi. Con un tasso di disoccupazione prossimo, secondo le stime del Fondo monetario internazionale, al 30% ed una popolazione di immigrati pari ad un quarto di tutti i residenti, la Libia è ormai uno scenario ideale per violenze xenofobe. Logico che molti africani prendano la via del mare in cerca di terre più ospitali. Magari con aiutino da parte delle autorità locali.
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