
Umanitari, cioè amabili
Non fossero bastate le macerie e i roghi provocati dai tre aerei schiantati su bersagli inermi, nelle ultime due settimane gli Stati Uniti sono stati sepolti da tonnellate di solidarietà pelosa. Quella di tutti coloro che hanno distinto fra la tragedia umana, meritevole di solidarietà, e la dimensione politica del fatto, riconducibile a colpevoli responsabilità internazionali dell’Amministrazione Usa. Negli interventi di Dario Fo, di Riccardo Barenghi sul Manifesto, di Tiziano Terzani sul Corriere della Sera e di tanti altri il popolo americano è stato compianto quale vittima innocente di una doppia malvagità: quella degli attentatori e quella del suo governo. Come si farebbe per gli infelici cittadini di una qualunque pseudo-repubblica tropicale o di una qualunque satrapìa orientale. Mistificando la politica e la storia: gli americani sono uno dei tre popoli (gli altri due sono quello inglese e quello francese) che hanno “inventato” la democrazia moderna, cioè quel sistema che offre al popolo la massima possibilità di controllo sul potere esecutivo fino ad oggi esperita, e al governo l’opportunità di vantare il massimo di rappresentatività.
Qualcuno dirà: sempre meglio questo umanitarismo miope che l’ideologismo di cinquant’anni fa: a quei tempi si sarebbe trovata un sacco di gente pronta a giustificare un atto così barbaro in nome di una morale rivoluzionaria (comunista, nazista, fascista, ecc.).
Certo, oggi la sensibilità per la sofferenza dei singoli esseri umani è più sviluppata che in passato. L’ideologia umanitarista vaccina contro la tentazione di giustificare in nome della politica l’ingiustificabile, ma ad un prezzo: rende impossibili la conoscenza e l’amore. Rende impossibile la conoscenza perché le interessa l’uomo solo in quanto sofferente, fatta sottrazione della sua storia, dei suoi valori e delle sue istituzioni (da qui nasce la miopia che, per esempio, fantastica una divaricazione congenita fra governo e popolo americano). E rende impossibile l’amore perché si arresta alla pietà, cioè al sentimento che prova chi sta bene verso chi sta male. L’amore, per essere tale, implica la parità di condizioni fra due soggetti: l’amato deve poter contraccambiare liberamente, e non perché si trova in condizione di minorità. È proprio su questo scoglio che l’umanitarismo si infrange, come ha mirabilmente scritto Alain Finkielkraut: «La generazione umanitaria… non ama gli uomini (troppo sconcertanti), ama occuparsi di loro. Se sono liberi, le fanno paura; per dare libero corso alla tenerezza e per prendersene cura senza che essi le sfuggano, li vuole handicappati». E infatti mentre gli americani in piedi erano detestabili, quelli in ginocchio diventano improvvisamente “amabili” (nel significato falsificato dell’aggettivo, non di vero amore si tratta). La posizione di tutti coloro che si riconoscono sotto lo slogan “né coi Talebani, né con l’Occidente” si nutre esattamente di questa incapacità sia di conoscere che di amare propria della nostra “generazione umanitaria”. Chi non ama, infatti, non ha nulla da difendere; non ha nulla per cui valga la pena vivere o rischiare la morte. Chi non ama, infatti, non sa che farsene della libertà.
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