Viviamo tempi apocalittici? La guerra infinita e l’alternativa della pace giusta

Di Carlo B. Scott - Visconti
24 Marzo 2022
Quello in Ucraina resterà un conflitto ingiusto come gli altri o si trasformerà in uno scontro senza limiti? Ragioni per preoccuparsi e motivi per sperare
Bombardamenti in edifici residenziali nella regione di Odessa, 21 marzo 2022.
Bombardamenti in edifici residenziali nella regione di Odessa, 21 marzo 2022

“Novantanove guerre nel Sol dell’Avvenire,
Novantanove.
Novantanove e una.
Come nessuna.
Mai dire mai, col senno di poi”
(Cronache di guerra I, in PGR, Ultime notizie di cronaca, 2009)

Ci sono le guerre. Ci sono sempre state. Ci sono dovunque, anche adesso. Ma questa dell’Ucraina ci fa una paura che non abbiamo mai provato. Né per Baghdad, né per Vukovar. Non per Kabul e non per Pristina. Per il Donbass – versione 2014 –  o per il Nagorno-Karabakh. Per Aleppo. Per Mosul. Giovanni Lindo Ferretti ha ragione quando canta della guerra che verrà dopo le novantanove combattute «per il Sol dell’Avvenire». Di quella che «come te non c’è nessuna, quella che devi e non vuoi…». E questa ha tutte le carte in regola per candidarsi al ruolo.

La sequenza guerra-pestilenza-carestia

Davvero viviamo tempi “apocalittici”? La sequenza pestilenza-guerra-carestia (quest’ultima non c’è ancora, ma basta dare un’occhiata all’andamento dei prezzi di grano, mais e fertilizzanti nell’ultimo mese per procurarsi un piccolo brivido) sembra confermare questa possibilità. Se è così, “apocalisse” significa svelamento. Tempo propizio per vedere.

«Un tempo si parlava anche nelle nostre Chiese di guerra santa o di guerra giusta. Oggi non si può parlare così», ha detto papa Francesco nella sua videochiamata con il patriarca Kirill di Mosca. E ha aggiunto: «Le guerre sono sempre ingiuste». Non è una novità, che i papi parlino contro la guerra. «Mai più la guerra, avventura senza ritorno. Mai più la guerra, spirale di lutti e di violenza», diceva Giovanni Paolo II a proposito della prima guerra del Golfo. «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra»: ricordava Pio XII, negli stessi giorni dei fiammeggianti discorsi che valsero a Winston Churchill il premio Nobel per la Letteratura («Ha mobilitato la lingua inglese e l’ha spedita in battaglia» disse di lui e della potenza performativa della sua eloquenza il visconte Halifax, suo ministro degli Esteri).

E ancora, ormai più di cent’anni fa, Benedetto XV assisteva alla fine di un mondo chiedendo alle nazioni di far cessare l’«inutile strage». Una apocalisse, quella della “Grande guerra”, di cui non abbiamo misurato mai fino in fondo la portata, la dimensione e la profondità (Si rilegga in proposito il dialogo tra Wormold, il protagonista de Il nostro agente a L’Avana di Graham Greene, e il suo vecchio amico dottor Hasselbacher, ex ufficiale di cavalleria del Kaiser Guglielmo: «Lei non desidera mai, signor Wormold, di tornare ai tempi della pace? Oh, no, dimenticavo, lei è giovane, non li ha conosciuti». Nessuno ha mai più conosciuto i tempi della pace, dal 1914…).

La prospettiva di papa Francesco

I papi hanno sempre – almeno nell’ultimo secolo – parlato contro la guerra. Mostrandone i rischi. I danni. I lutti. Le parole di papa Francesco – è questa a mio parere la novità – fanno intravedere però una prospettiva più radicale, che legge la possibilità della guerra nella realtà odierna individuandone le caratteristiche inedite. Che non sono il rischio dell’olocausto nucleare (che questo rischio ci sia è un dato assodato dagli anni Cinquanta del secolo scorso). E nemmeno la strutturale sproporzione tra svantaggi e vantaggi che la guerra porta con sé. L’enfasi sulle sofferenze degli innocenti.

Potremmo dire che le guerre sono sempre ingiuste perché, alle condizioni attuali e soprattutto per l’esperienza univoca e generale dell’ultimo mezzo secolo abbondante, sono strutturalmente inutili e incapaci di ottenere gli obiettivi anche minimi per cui vengono iniziate e proseguite. A fronte però di una potenza nel devastare in profondità e a tempo indeterminato il tessuto umano dei luoghi in cui sono combattute che sembra accrescersi di decennio in decennio. Per quanto ci si affanni a cercarlo, non c’è un dopoguerra della storia recente per il quale si possa dire, pur con tutto il dolore patito: “Alla fine ne è valsa la – enorme – pena…”.

Credere che la guerra possa risolvere un problema, respingere un nemico, creare le condizioni per una vita migliore è in sostanza, da moltissimo tempo, ma in modo incontrovertibile da cinquant’anni a questa parte, una illusione. Illusione colpevole sempre (nessuno può fingere di non sapere cosa è accaduto ineluttabilmente dalla guerra del Vietnam in poi). Illusione colpevole e scellerata, laddove alla non considerazione della storia si aggiunga la menzogna.

La guerra infinita per trasformare il mondo

Posto che a queste condizioni non ha senso discettare di guerra giusta (nessuna lo è) e che però le guerre accadono, costringendo milioni di persone a combatterle, a cercare di sfuggire alle devastazioni, a doversi misurare con esse prima di tutto – perché prima di tutto siamo uomini – pensandole e giudicandole, prendendo di fronte a loro una posizione personale, il dilemma che si pone è quello di capire se una guerra è ingiusta (tutte lo sono, ma si tratta di capire se sono solo quello) o è una guerra infinita.

Una guerra (solo) ingiusta è tale perché gli interessi per i quali è combattuta si possono raggiungere, esclusivamente o in modo estremamente più efficace non combattendola. In questo senso si può dire, con Benedetto XV, che è inutile. Cioè inefficace. Una guerra ingiusta è quindi una guerra che può essere terminata prima che sia troppo tardi e in qualche modo “sostituita” con una soluzione non bellica, più efficace e meno cruenta.

Una guerra infinita è utile a chi la vuole in quanto è guerra. In quanto c’è. In quanto produce esattamente i risultati che può produrre: la devastazione in profondità, perpetua e su larga scala del teatro in cui si combatte. Che può essere allargata a dismisura, portare a escalation sempre più inquietanti, comportare ripercussioni economiche, sociali, politiche, umane rivoluzionarie. La guerra infinita è combattuta in nome del “Sol dell’Avvenire”, qualunque esso sia. Serve per la trasformazione infinita del mondo. È la forma di rivoluzione adatta ai nostri tempi nicciani e nichilisti:

“You that never done nothin’
But build to destroy
You play with my world
Like it’s your little toy”
(Voi che non avete mai fatto altro
che costruire per distruggere
giocate con il mio mondo
come fosse il vostro giocattolo)
(Masters of War, in Bob Dylan, The Freewheelin’ Bob Dylan, 1963)

C’è più del pacifismo peace and love. C’è la profezia di un mondo che viene costantemente costruito per essere distrutto, e di nuovo ricostruito, secondo una volontà di potenza, una Wille zur Macht che è molto più profonda e potente della avidità economica. Una Wille zur Macht che è e tende a diventare la religione universale, individuale e collettiva.

Motivi per temere che duri troppo a lungo

Rimane da capire se la guerra in Ucraina, questa guerra che giustamente ci spaventa come nessuna, perché come nessuna è pericolosa, possa rimanere una guerra ingiusta (e come tale mostrare a occhi intelligenti la sua inutilità, e terminare quanto prima) o trasformarsi presto, per opera di chi vuole la rivoluzione permanente di questo nostro mondo, in una guerra infinita. O peggio, nella guerra infinita.

Ci sono rilevanti motivi che fanno temere che la guerra (o un dopoguerra violento, corrotto e instabile, in cui non ci sia rapida ricostruzione e ristoro degli ingenti danni umani, fisici ed economici di una guerra anacronistica) duri indefinitamente:

1) Le classi dirigenti (e con questo intendo governi, élite culturali, organismi internazionali, potenze economiche) del nostro mondo sono “rivoluzionarie”, nel senso detto sopra (non dobbiamo pensare necessariamente alla coloritura politica e ideologica di Lenin che arringa la folla davanti alla stazione di Finlandia). Possono essere liberal-rivoluzionarie o social-rivoluzionarie ma condividono quella che si potrebbe chiamare la tendenza “Sarajevo 1914”. Bisognerebbe rileggersi François Fejtő e il suo Requiem per un Impero defunto, quando descrive l’Europa e il mondo alla vigilia dell’omicidio di Francesco Ferdinando d’Asburgo a Sarajevo. La situazione è analoga. Tutto esige un mondo nuovo, un nuovo ordine del mondo, o forse un permanente disordine del mondo: gli interessi strategici anglo americani di dominio unipolare, di monopolio del soft power, di governo dei mari e di controllo della grande isola “euroasiatica”; il regime cinese, che attende il partner militare, il player diplomatico e geopolitico e il fornitore di materie prime capace di spostare a suo vantaggio gli equilibri di fondo e di saldare al proprio dominio globale la parte settentrionale del continente asiatico; l’Europa nella sua visione ideologica dei diritti e nel suo entusiasmo per la ritrovata capacità unitaria di prendere decisioni (entusiasmo per l’unità che sembra a volte assomigliare a una “sindrome dell’arto fantasma”); alcuni influenti correnti di pensiero che ispirano il Cremlino che sognano la “Terza Roma” moscovita rovesciare il mondo corrotto. Solo i turchi e gli israeliani sembrano capire i potenziali guai che derivano da una guerra che ieri per un Arciduca, oggi per il timore di una Nato presto a ridosso del Don, comincia e porta ineluttabilmente alla disgregazione della prospettiva di un ordine non rivoluzionario.

2) Questa prospettiva avrebbe di per sé un luogo in cui esiste la maggior parte delle condizioni che le permetterebbe di sorgere e di configurarsi: lo spazio geografico e culturale tra l’Atlantico e gli Urali. Queste condizioni sono minate e indebolite da almeno due decenni, con una violenta accelerazione nell’ultimo lustro. Ma la trasformazione della guerra in Ucraina in una guerra infinita darebbe il colpo di grazia a questa prospettiva: Europa frullata dal punto di vista sociale (milioni di profughi), economico (letteralmente alla canna del gas, e indotta dallo shock bellico a fare ciò che se fosse decentemente guidata dai propri interessi non farebbe mai: inseguire la chimera di una diversificazione energetica inefficace e costosissima) e politico (sbriciolata nella sua capacità di pensarsi e impossibilitata anche solo a immaginare di parlare civilmente con la sua metà orientale. Metà orientale che, a meno che non si verifichino gli scenari più catastrofici, è destinata a rimanere anche dopo questa guerra. Incattivita. Indisponibile. Sempre più lontana e nemica. Altro che “respirare con due polmoni”, come diceva papa Giovanni Paolo II…). Ciò che è sconcertante è il modo con cui l’Europa stessa sembra dare un rilevante contributo alla prospettiva di un allargamento e di un incancrenimento del conflitto (non solo bellico) con decisioni e prese di posizioni che a tutto portano tranne che a un rafforzamento degli spazi di mediazione. Sembra che non ci sia interesse a questi spazi di mediazione. Addirittura che ci sia un interesse contrario.

3) La vaporizzazione della dialettica politica in Europa, seppellita sotto la sempre più potente propaganda, che è ormai l’orizzonte ultimo di comprensione della realtà. Quanto aveva ragione Vaclav Havel, quando nel Potere dei senza potere descriveva la necessità, per l’impalcatura ideologica, di una propaganda la cui funzione non è convincere tutti dei suoi contenuti ma mostrare che l’unica realtà possibile è l’ideologia stessa? Ci siamo sempre attesi che questo potesse accadere solo sotto plumbei regimi monopartitici, e non ci siamo accorti di come la riduzione degli spazi praticabili di informazione, discussione e decisione politica avvenisse sotto i nostri occhi. Oggi siamo tutti interventisti, non perché tutti si sia d’accordo, ma perché non esserlo è immorale. Significa, che si sia Primi Ministri o privati cittadini, essere “putinieri”, come ci insegna un amico editorialista del più importante quotidiano italiano (quotidiano che ha un discreto palmares dal punto di vista dell’interventismo, in tutta la sua più che centenaria storia…). Dopo la adozione di una narrazione unica in fatto di Covid, questo è il secondo grande colpo alla libera dialettica politica nel giro di tre anni, in nome di valori superiori, o di nuovi principi “non negoziabili”. Un “uno – due” che ha prodotto un indebolimento enorme delle soggettività politiche nelle nostre democrazie. Foriero di cosa?

4) La preoccupante mancanza di proposte alternative alla guerra, figlia della scomparsa della politica dalla nostra cultura e dalla nostra vita istituzionale. Figlia anche e soprattutto di una “guerra infinita”, rivoluzionaria e trasformatrice, a livello del pensiero e dell’ethos personale. Della fine della “educazione del popolo”, grazie alla quale staremmo tutti meglio, come ebbe a dire don Luigi Giussani, la sera dei funerali dei nostri caduti a Nassiriya. Cosa intendiamo per pace? Cosa possiamo proporre che non assomigli troppo alla perversione di ideali e di principi? Di ciò che era un onesto tentativo di bene e di ordine che per qualche decennio ha avuto la possibilità di governare, con qualche limitato successo, la nostra parte di mondo? Perversione, cioè stravolgimento / capovolgimento / trasformazione rivoluzionaria significa cattiveria e tigna feroce nel perseguire i propri scopi di guerra infinita.

Motivi per sperare che finisca presto

Esistono però motivi che inducono a sperare che questa guerra rimanga ciò che è, una guerra ingiusta, e che quindi abbia la possibilità di durare il meno possibile:

1) La situazione sul campo dice vittoria di una parte (è probabile l’accerchiamento quasi completo del grosso dell’esercito ucraino nel Donbass) e però resistenza inattesa e ragguardevole dell’altra. Queste condizioni, se da un lato possono incrementare la percezione e la tentazione di pensare che gli eventi bellici siano in grado di determinare il dopo guerra, e quindi siano da proseguire fino al massimo vantaggio possibile, dall’altro in realtà rendono già ora non disonorevole per ciascuno dei due contendenti una pace o una tregua.

2) Una certa non scontata tenuta del livello diplomatico. Sia di quello diretto (russi e ucraini continuano a dire che è dura ma si incontrano; i corridoi umanitari prima non funzionano, ma poi, a dispetto delle reciproche accuse, permettono, se non in tutte in molte situazioni, ai civili di spostarsi dal teatro degli scontri, etc), sia di quello mediato (le mediazioni turca e israeliana sono state a gran voce date per fallite, ma non si sono sciolte come neve al sole. Tornano carsicamente a emergere, e mostrano una tenacia che forse indica un interesse concreto dei mediatori). Personalmente non dispero completamente neanche dell’efficacia della linea di dialogo Roma Mosca, intesa nel senso di Sedi patriarcali. Non tanto e non solo riguardo alla assistenza umanitaria alla via Crucis degli sfollati e dei profughi, ma anche e forse soprattutto rispetto a uno sguardo sul futuro di questi popoli, religiosi come noi ci siamo scordati si possa essere, non appiattito sulla discordia e sulla distruzione presente. Un tassello fondamentale di un ordine non nichilista – rivoluzionario.

3) Alcune schegge di prudenza (la vera virtù dei governanti) anche nel campo di chi sembra essersi votato alla posizione “all war” (Il no alla “no fly zone”, almeno per il momento e in queste condizioni, o la ribadita contrarietà tedesca all’embargo su petrolio e gas russo – cosa che tra l’altro ammazzerebbe la disastrata economia ucraina) che sembrano più resistenti, almeno fino ad adesso, delle grida propagandistiche, emotive o iperpolitiche che siano.

Il fattore Zelensky

Poi c’è un elemento ambiguo, e francamente inatteso: l’imprevedibile presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Che un giorno chiede la guerra di tutti contro la Russia, il giorno dopo dichiara tutta la sua costernazione di fronte alla inaffidabilità dell’Occidente, il giorno dopo ancora apre a trattative negoziali su basi non molto distanti dalle posizioni dei suoi nemici. Molto dipenderà da quanto potrà decidere di spendere la sua allure di Padre della Patria in T-shirt in modo da essere, in misura più o meno rilevante, il rappresentante di interessi diversi da quelli della guerra infinita.

Rimane un fatto: a Dio piacendo, questa potrebbe non essere la guerra senza uguali, ragionando a partire dalla quale siamo arrivati fin qui. Ma se non fosse la centesima guerra, quella definitiva, è comunque la prima in cui abbiamo fatto i conti con la concretezza di questa possibilità. L’ipotesi della guerra senza limiti è entrata nel campo delle possibili opzioni. Questo già produce conseguenze ineliminabili. La guerra infinita si mostra come lo strumento della trasformazione del mondo. La pace giusta è ciò che non sappiamo proporre come alternativa, perché non la conosciamo più. Perché non sappiamo più come vivere. A Dio piacendo, è l’occasione per tornare a pensarlo.

Foto Ansa

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