
Terra di nessuno
Tutto fermo come un incantesimo
Tratto dal numero 26/2012 di Tempi
La strada da Como a Bellagio nella mattina di giugno gronda di una luce chiara che filtra tra le foglie delle palme, e batte sui gelsomini arrampicati sui muri di cinta. Ne viene un fiato dolcissimo, come l’anima stessa di questa giovane estate. Il lago, sulla sinistra, è calmo, e quasi perfettamente liscia la pianura serica dell’acqua. Lungo la strada tortuosa suoni il clacson a ogni curva stretta – ma non arriva, dall’altra parte, mai nessuno. I borghi che si allineano sul litorale hanno vicoli angusti e selciati di ciottoli e gradini ripidi. Le ville, sono tutte antiche, l’intonaco della facciata amabilmente ingiallito da una innumerevole sequenza di tramonti. I glicini sui pergolati hanno tronchi grossi e nodosi, cresciuti in molto lontane primavere. Dai fili sui balconi la biancheria stesa pende immota nella calma del vento. L’ago di una meridiana proietta l’ombra sulle 11; ed è come se da quelle cifre romane l’ombra sottile non dovesse staccarsi mai.
Il tempo su quest’angolo di lago sembra essersi fermato. Le ville hanno tratti da Belle Epoque, e un certo albergo Annetta, con le finestre tutte chiuse, probabilmente – mi dico – pullula di gentili fantasmi di dame con le gonne lunghe di inizio Novecento. Mi immagino, dentro, divani di raso ricoperti da drappi bianchi, e vasellame d’argento inscurito dagli anni. E odore di polvere, nelle lame di luce che si insinua clandestina dalle persiane. Da quelle finestre il lago deve essere un grande specchio lucente, imperturbabile. Come l’anima di un mondo immobile, indifferente a noi che passiamo. Mi viene in mente una frase che il cardinale Angelo Scola ha scritto all’inizio dell’anno in un suo Te Deum su Tempi: «Il tempo che passa è un tarlo che rode il cuore dell’uomo. O almeno così mi accorgo io andando avanti negli anni.
Il tempo che passa è come un rumore sordo che in certi momenti uno seppellisce nelle cose che fa. Ma, sotto sotto, resta». Era questa allora l’inquietudine che già da ragazza avvertivo, fissando l’acqua scura del lago. Benchè lo trovassi bellissimo non riuscivo a starci a lungo davanti; dovevo andare via, e quasi scappare, come se quell’acqua lenta svegliasse in me un’eco dolorosa. A Bellagio stamane, fra gli hotel in stile Liberty, i turisti inglesi vestiti di chiaro e con il cappello di paglia in testa sembrano esattamente gli stessi di trent’anni fa, seduti ai tavolini dei caffè sul lungolago. E, lo so, questa sera l’acqua si farà nera e liscia, e rifletterà sulla sua faccia tremante ogni faro, ogni luce della riva; di modo che sembrerà di vedere due mondi, quello reale e quello nell’acqua, parallelo.
Tutto fermo, come dentro un incantesimo. E di nuovo sentirò affiorare quella strana paura da dentro. («Perché il tempo che passa – continuava quel testo di Scola – è il più grande interrogativo. Perché il rumore del tempo che passa è il rumore della morte. Che non riesci a eliminare. E allora lì, lì è come se uno potesse misurare quanto è ancora astratto il suo amore a Dio»).
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!