
Tutti a casa
Si dice che i due diessini che Silvio Berlusconi stima di più siano Piero Fassino e Pierluigi Bersani: il primo perché è uno dei pochi dirigenti dell’ex Pci che dimostri sia nelle parole che nei fatti di avere superato la forma mentis dell’egemonia che resta lo stigma del post-comunismo italiano anche a Pci defunto e sepolto; il secondo per il pragmatismo e l’efficienza che tanto piacciono agli imprenditori. Beh, se Fassino e Bersani oggi sono quel che di meglio il convento Ds può passare, sia i Ds che l’Italia debbono preoccuparsi, perché l’impressione che il ministro dei Trasporti ha lasciato con la sua partecipazione all’annuale assemblea della Compagnia delle Opere (Cdo) che si è tenuta a Milano il 4 giugno è stata quella di un politico ragionevole e accorto, ma assolutamente marginale e impotente di fronte alla crisi istituzionale in corso e ai suoi inevitabili riflessi politici.
Un Bersani-show poco convincente.
Il tema, come da molti anni accade in occasione dell’assemblea mattutina della Cdo, era attuale e stimolante: “Sussidiarietà, federalismo e devolution: nuove prospettive per l’Italia”, da discutere col Presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, col capogruppo della Lega Nord Giancarlo Pagliarini e con Emma Marcegaglia consigliere delegato di Confindustria alla presenza di 5 mila aderenti e operatori della Cdo. Ebbene, che si trattasse dell’accordo di Genova fra quattro Regioni del nord governate dal Polo sugli aiuti di Stato all’industria, della polemica di Visco e Amato sulla presunta violazione del patto di stabilità della spesa pubblica da parte delle Regioni, o del dibattito sull’opportunità di definire “popolo” gli abitanti delle regioni italiane, Bersani ha puntualmente interpretato il ruolo del Grillo Parlante che mette in guardia da “idee pericolose” come quella di vedere nelle regioni qualcosa di diverso da “uno snodo funzionale tra locale e globale” e farne “identità forti… che esprimono meccanismi di chiusura”; che concede solo identità di tipo comunale, perché “gli emiliano-romagnoli altro non sono che gli italiani dell’Emilia-Romagna, l’unica altra identità forte è quella che ci fa modenesi, parmensi, ecc.”; che lancia il monito sul “pane spezzato del decentramento che non arriva alla gente” perché, in fondo, le Regioni sono più centraliste dello Stato; che, pur senza appiattirsi sulle critiche sommarie di Visco alle Regioni, ammonisce che “secondo i criteri di Maastricht è spesa pubblica tutta la spesa composta”.; che intima, alludendo a quello che era successo a Genova, di “non portare le istituzioni dentro la logica dello schieramento politico”, che implora “un patto per tenerle fuori” .
Un Grillo Parlante che si esprime a questa maniera indubbiamente lavora per il re di Prussia. Il quale, da Cesare a Federico Barbarossa per arrivare ai re di Roma del giorno d’oggi, sa bene che il metodo del “divide et impera” è la migliore garanzia contro qualunque cambiamento di sistema: finché gli italiani se ne stanno divisi sotto i loro mille campanili e si lasciano raggirare da chi gli fa credere che il federalismo è una caduta dalla padella del centralismo romano alla brace di un neo-centralismo regionale, il potere burocratico può dormire sonni tranquilli. Specie se non si racconta agli italiani la storia tutta intera, e cioè che lo Stato ha decentrato alle Regioni un po’ di funzioni, ma, a tutt’oggi, pochissime risorse: per esempio i decreti che dovrebbero “passare” le risorse in materia di agricoltura (le cui competenze sono passate dallo Stato alle Regioni e da queste alle Province) sono in ritardo di 36 mesi! Formigoni lancia l’esca e il pesce abbocca.
Eppure né Formigoni né Pagliarini hanno scagliato martellate contro Grillo-Bersani. Un po’ per conformarsi allo spirito ecumenico con cui il presidente Cdo Giorgio Vittadini ha aperto i lavori (“Questo tavolo è pluralista perché la Cdo è pluralista; noi non siamo mai stati una corrente di nessun partito e mai lo saremo; questi tre amici per noi sono ugualmente amici”, ha detto; ma qualche preferenza nei confronti di Formigoni questa Cdo deve averla, visto che lo ha lasciato salire per primo sul palco a prendersi il grosso degli applausi e gli ha concesso l’ultima parola in tutti e due i giri di intervento). E un po’ perché sembravano più a loro agio nel ruolo del Gatto e la Volpe che in quello di Pinocchio. D’altra parte una martellata Bersani se l’è data da solo quando si è preso la libertà di definire “eversivo nella forma” l’incontro dei presidenti di Regione a Genova per la ridistribuzione degli aiuti di Stato: il giorno dopo il ministero del Tesoro se ne è venuto fuori notificando che non di atto eversivo si trattava, bensì tardivo (!), avendo il Tesoro stesso più volte stimolato le Regioni ad assumere quel provvedimento. Chi dei due piscia fuori dal vaso, Bersani o Visco?
Formigoni, dunque, corentemente alla filosofia della moderazione abbracciata dal Polo che abbiamo illustrato nel numero scorso (cfr. pp.4-5), è stato misurato nei toni e rassicurante nei contenuti, ma proprio come fa il gatto col topo. Bersani aveva saputo toccare le corde più profonde dell’anima della Cdo quando aveva detto che “le Regioni vanno rafforzate solo se sono una cinghia di trasmissione della sussidiarietà; la sussidiarietà verticale, cioè il federalismo, non garantisce la sussidiarietà orizzontale”. Risponde Formigoni: “Non mi interessa fare della Lombardia uno Stato nazionale centralista in piccolo. Federalismo e devolution mi stanno a cuore per dare più libertà e diritti alle persone. Il trasferimento delle competenze sulla scuola alle Regioni non mi interessa per replicare a livello lombardo l’attuale sistema centralista, ma per cambiarlo in modo tale che sia fondato sulla libertà di scelta dei singoli e delle famiglie”. Olé. Sulla questione del “patto di Genova” il Presidente della Lombardia rassicura: “Lo ratificheremo debitamente in sede di Conferenza Stato-Regioni. E lo avrei firmato anche se il presidente della Liguria fosse stato di sinistra”.
Bersani aveva invocato la creazione di una “Camera delle Regioni” entro cui gestire e mediare le fregole federaliste per evitare “il venir meno del bilanciamento nazionale”. Formigoni magnanimo ricorda che il progetto di Camera delle Regioni, con parlamentari eletti dalle regioni per trattare le materie della devoluzione e non conteggiati per il voto di fiducia al governo, lui lo aveva già presentato insieme agli altri presidenti di Regione alla Bicamerale, e che comunque le riforme si faranno rispettando due princìpi: quello della solidarietà fra regioni ricche e povere e quello di un processo istituzionale in debita forma, dove cioè è il Parlamento che approva le leggi di riforma costituzionale. Tutti annuiscono, e qui il Furmiga piazza il colpo: “Il federalismo è un processo di distinzione. Non è una bestemmia pensare che ogni regione possa autonomamente immaginare il suo proprio percorso verso il nuovo assetto. Il federalismo in Italia potrebbe richiedere percorsi diversi e differenziati nel tempo da regione a regione. Naturalmente ci vuole una legge costituzionale che garantisca il processo. Ma fra la paralisi attuale e l’Italia finalmente federalista c’è di mezzo un processo che va avviato subito”. Bersani inevitabilmente abbocca: “Sottoscrivo in pieno quel che dice Formigoni su entrambi i punti: il percorso può avere velocità differenti a seconda delle regioni e la riforma federalista la deve fare il parlamento. Sveleniamo il clima e facciamo qualcosa prima della fine della legislatura”. Così Bersani si mette sotto scacco da solo, perché il problema del governo Amato, per quanto riguarda il federalismo, è proprio questo: che la maggioranza, da Mastella a Cossutta passando per i Verdi, non ammetterà mai che le regioni possano muoversi a velocità differenti. A loro infatti, diversamente dal lungimirante Bersani, non importa un fico che l’Italia perda tutti i treni della globalizzazione perché alle sue regioni più forti non è concessa l’autonomia per promuovere le condizioni della loro competitività: pur di non allentare il controllo sulle loro clientele, di non rinunciare a rendite di posizione e di riaffermare il primato dell’ideologia sulla realtà sono pronti a sacrificare il futuro di tutti gli italiani, del nord e del sud. Quel che succederà è che fino alla fine della legislatura non si farà niente di significativo, e ciò, oltre a screditare i volonterosi del centrosinistra come Bersani, legittimerà altre Genova, ben più dirompenti della prima.
Welfare State? Roba per cretini.
Il presidente Vittadini ha gettato un salvagente al ministro dei Trasporti: “La Cdo propone una nuova Bicamerale per la riforma dello Stato, di cui l’appuntamento di oggi è stato un test; una Bicamerale con una forte presenza delle forze sociali e delle istituzioni. Perché noi non vogliamo una società tutta privatizzata, vogliamo la libertà di scelta fra pubblico e privato senza monopolismi, in uno spirito di competizione virtuosa”. Ma il sollievo dei filogovernativi di tutta Italia è durato poco, perché Vittadini ha subito aggiunto: “Siamo favorevoli e vogliamo essere parte della nuova welfare society, dove tutti sono protagonisti, e siamo contrari al welfare State, dove lo Stato pensa a tutto dalla culla alla tomba. Perché l’io diventa cretino se si aspetta tutto da un altro e non si impegna in un’opera sua. Noi vogliamo, anche dal punto di vista dell’organizzazione sociale, che ci sia sempre qualcuno che cammina insieme con noi e non al nostro posto. Vogliamo una riforma costituzionale che stabilisca che le iniziative della società non sono ‘autorizzate’, ma ‘riconosciute’. Mentre oggi la legge sulle Onlus (gli enti non profit – ndr) fa schifo, perché non permette loro di operare nella realtà economica. Vogliamo la libertà di scelta fra servizi pubblici e privati anche nella scuola e nella sanità, attraverso la forma del buono. Altrimenti non c’è vera sussidiarietà e di conseguenza non c’è vera libertà”. Formigoni, Bersani e Pagliarini tutti amici allo stesso modo? Mah…
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