Tutte le omissioni di D’Alema sulla guerra del Kosovo

Di Rodolfo Casadei
17 Settembre 2024
In un'intervista al Corriere l'ex premier fa il moderato e dà lezioni su come gestire i conflitti. Ma dimentica di dire che nel 1999 ha portato l'Italia in guerra con la Nato senza comunicarlo al Parlamento
L'ex premier Massimo D'Alema
L'ex premier Massimo D'Alema (Ansa)

Ci sono alcuni aspetti lunari nell’intervista al Corriere della Sera con cui Massimo D’Alema rievoca la partecipazione dell’Italia alla campagna della Nato contro la Serbia che si svolse fra il 24 marzo e il 9 giugno 1999 e si concluse col ritiro delle truppe di Belgrado dal Kosovo, primo passo verso la secessione e indipendenza della provincia.

D’Alema non può dare lezioni a nessuno

Il senso politico del dialogo dell’ex capo di governo e segretario del Pds/Ds con l’inviato del Corriere Francesco Verderami è di esaltare la flessibilità e l’acume del governo da lui presieduto nel gestire la partecipazione dell’Italia a un’operazione militare internazionale contro un paese straniero, per distinguerla dalle attuali politiche Nato di sostegno ottuso, massimalista e privo di realismo all’Ucraina attaccata dalla Russia. Conclude infatti: «Se penso a ieri e guardo oggi, la cosa che mi colpisce è: dov’è finita la politica? Dov’è lo sforzo per costruire uno scenario sostenibile per il dopo?».

E alla domanda dell’intervistatore: «Si riferisce al conflitto in Ucraina?», risponde: «Mi riferisco a certi discorsi senza senso. A certe persone che dicono “Dobbiamo vincere la guerra”. Penso a Blair o all’ex segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. Questa è una guerra che nessuno può vincere: da una parte c’è una potenza nucleare e dall’altra la forza militare dell’Occidente. Se non ci si ferma, l’esito può essere una catastrofe mondiale. La politica dovrebbe trovare una via d’uscita».

Gli inviti di D’Alema alla moderazione e al realismo di fronte al rischio di una catastrofe mondiale sono lodevoli, ma non è il caso di portare come esempio di approccio valido quello della partecipazione dell’Italia alla guerra del Kosovo nel 1999. Partecipazione segnata da un peccato originale: il governo D’Alema portò l’Italia in guerra senza comunicazioni al Parlamento e senza chiedere l’approvazione parlamentare all’intervento militare come è richiesto dalla Costituzione.

Il ruolo fondamentale dell’Italia nella guerra

Non solo le forze anglo-americane e di altri 10 paesi utilizzarono le basi italiane, lo spazio aereo e le acque territoriali, come punto di appoggio per le loro incursioni aeree e navali, inclusi bombardamenti di città della Serbia, ma l’aeronautica italiana colpì le forze armate di Belgrado all’interno del Kosovo, cioè di un territorio che, in base al diritto internazionale, faceva parte dell’allora Repubblica federale di Jugoslavia (e la cui indipendenza ancora oggi non è riconosciuta da metà dei paesi del mondo).

Il contributo diretto italiano alle operazioni militari non fu trascurabile: delle 34 mila missioni dell’operazione Allied Force, 1.200 furono effettuate da aerei italiani. Partecipammo con più di 50 velivoli, tra cui 12 F-104 Asa-M, 8 Tornado Adv (presi in leasing dalla Raf, compresi i missili aria-aria a medio raggio Sky Flash), 6 Tornado Sead (per la soppressione delle installazioni radar), 10 Tornado Ids, 12 Amx (impiegati in missioni di supporto aereo ravvicinato e di ricognizione) e 4 Av8b Harrier II Plus. Supporto aereo ravvicinato (nel gergo militare: Cas) significa che le nostre forze collaborarono a operazioni di terra che coinvolgevano le forze del discusso Uck, l’Esercito di liberazione del Kosovo, che si è macchiato di atti di terrorismo e crimini di guerra.

Le manovre di Cossiga

Mentre D’Alema vanta di aver avuto un ruolo da protagonista nelle trattative che portarono al rilascio da parte serba di Ibrahim Rugova, il leader della lotta non violenta per l’indipendenza del Kosovo che era stato arrestato dopo l’inizio delle operazioni militari da parte della Nato, i fatti parlano di 400 missioni aeree Cas della Nato a supporto dell’Uck.

A D’Alema nell’intervista non viene posto alcun quesito sul mancato voto di approvazione dello stato di guerra da parte delle Camere, previsto dall’art. 78 della Costituzione (forse perché si sa già la risposta dell’ex capo di governo, che sempre cita una sentenza della Cassazione del 1999 che lo assolse da questa e altre accuse), e nemmeno sul ruolo di Francesco Cossiga nell’intera vicenda: il nome dell’ex capo dello Stato viene citato a parte da Verderami come autore di una “profezia” secondo cui «il leader della sinistra era indispensabile per poter fare la guerra in Kosovo».

In realtà Cossiga, a quel tempo leader dietro le quinte della piccola formazione dell’Udr, aveva fatto molto di più che pronunciare una profezia: aveva offerto la sua pattuglia di deputati fuoriusciti dal centrodestra per sostituire i voti di Rifondazione Comunista che aveva fatto cadere il primo governo Prodi, a patto che il nuovo governo – di centrosinistra come il precedente – non fosse guidato dall’ex presidente dell’Iri, ma dal principale leader della sinistra di allora, cioè Massimo D’Alema. Cossiga, atlantista a 24 carati, era sicuro che la Nato sarebbe intervenuta nei Balcani, ed era altrettanto sicuro che l’Italia avrebbe potuto essere parte dell’operazione senza oceaniche proteste di piazza, che avrebbero reso impossibile la partecipazione italiana, soltanto se alla guida del governo ci fosse stato il capo dei Ds.

Un soldato italiano davanti al quartiere generale della polizia serba distrutto dalla Nato all’entrata della città kosovara di Djakovica (Ansa)
Un soldato italiano davanti al quartiere generale della polizia serba distrutto dalla Nato all’entrata della città kosovara di Djakovica (Ansa)

D’Alema provò a «evitare il conflitto»?

Così di fatto fu: a protestare in piazza contro la partecipazione italiana ad Allied Force e a denunciare D’Alema ai giudici furono solo dirigenti e militanti di Rifondazione Comunista e di gruppetti vari, attivi soprattutto nelle università. Cossiga si vantò per anni dell’impresa di aver fatto in modo che a partecipare a una guerra della Nato contro i post-comunisti jugoslavi fosse stato un governo italiano guidato da un post-comunista. Di fronte a tutto ciò, l’affermazione dell’ex leader Ds «feci di tutto per evitare che si arrivasse alla guerra. Di tutto», fa un po’ sorridere. E non per l’apparente ingenuità…

Un altro passaggio poco convincente dell’intervista è quando D’Alema taglia corto: «Quando si trovò l’accordo con la Serbia e la Serbia si ritirò, a entrare in Kosovo non fu la Nato ma un corpo militare sotto l’egida delle Nazioni Unite, di cui facevano parte anche militari russi. Così si ricompose anche quel quadro di legalità internazionale che era stato lacerato, visto che la Nato aveva agito senza l’autorizzazione dell’Onu».

A un passo dalla terza guerra mondiale

In realtà la risoluzione delle Nazioni Unite che incaricò la forza Nato di occuparsi della gestione post-bellica del Kosovo arrivò soltanto dopo che i serbi si erano arresi nelle mani della Nato, non in quelle dell’Onu: la resa di Kumanovo è del 9 giugno 1999, la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu è dell’11 giugno. I russi, poi, furono talmente contenti del ruolo loro assegnato nella forza multinazionale (volevano essere incaricati della protezione del “settore serbo”, ma non fu loro assegnato alcun settore) che occuparono l’aeroporto di Pristina senza nessuna autorizzazione da parte del comando di Kfor (l’operazione validata dall’Onu che prendeva il posto di Allied Force).

La terza guerra mondiale non scoppiò soltanto perché il comandante delle forze britanniche presenti sul posto, capitano James Blunt, si rifiutò di eseguire gli ordini del comandante americano di Allied Force, il generale Wesley Clark, che gli aveva ordinato di «sopraffare» e «distruggere» i russi.

Perché la Cassazione ha discolpato D’Alema

Ma perché la Cassazione ha discolpato a suo tempo D’Alema dall’accusa di non aver rispettato la Costituzione? Per una delle solite furbate all’italiana, quelle con cui si rispetta la lettera del dettato costituzionale senza rispettarne la sostanza: come giustamente ricorda l’ex presidente del Consiglio, «quando il governo di Romano Prodi cadde eravamo in una situazione prebellica. Prodi infatti aveva già deliberato l’activation order, che è l’atto con cui i governi dell’Alleanza Atlantica pongono le loro Forze armate sotto il comando unificato della Nato».

Ci fu una votazione parlamentare con cui il comando delle forze militari fu “ceduto” alla Nato nel caso «si fosse resa necessaria» una operazione di «intervento umanitario» (fra virgolette i termini usati nella votazione parlamentare). La decisione fu presa all’unanimità dalle Camere nell’ottobre 1988, compreso il voto dei parlamentari di Rifondazione Comunista. Da quel momento le operazioni in Kosovo non passarono più attraverso un controllo parlamentare. E i giudici della Cassazione poterono sentenziare alla fine del ’99 che il comportamento di D’Alema era stato ineccepibile, perché in base all’articolo 11 della Costituzione l’Italia limita la sua sovranità nazionale aderendo a trattati e patti internazionali.

Come quello che permetteva di consegnare le proprie forze armate al generale Wesley Clark, approvando un activation order. Più che esaltare il modello D’Alema-Kosovo, bisognerebbe vigilare che non si ripetano automatismi del genere.

@RodolfoCasadei

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