Tutte le assurdità di una legge sulla tortura che tortura il buonsenso

Di Maurizio Tortorella
03 Giugno 2015
Il testo Pd-M5S è vago, generico, privo di tassatività. Ed espone alle manette qualunque agente che tiri una manganellata a un facinoroso che resiste all’arresto

carcere-shutterstock_270223523Pubblichiamo la rubrica di Maurizio Tortorella contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Prima prendete bene il fiato. Poi leggete qui: «Chiunque, con violenza o minaccia, ovvero con violazione dei propri obblighi di protezione, di cura o di assistenza, intenzionalmente cagiona a una persona a lui affidata, o comunque sottoposta alla sua autorità, vigilanza o custodia, acute sofferenze fisiche o psichiche al fine di ottenere, da essa o da un terzo, informazioni o dichiarazioni o di infliggere una punizione o di vincere una resistenza, ovvero in ragione dell’appartenenza etnica, dell’orientamento sessuale o delle opinioni politiche o religiose, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni».

Se dopo l’apnea siete ancora vivi, complimenti per i polmoni: avete appena letto il primo comma dell’articolo 1 della nuova legge che introduce il reato di tortura in Italia. È stato approvato il 9 aprile dalla Camera dei deputati. Il terrore vi ha fatto ripiombare nell’apnea? Tornate a respirare, non abbiate paura: dato che la Camera ha modificato un testo che era stato approvato dal Senato nel marzo 2014, il disegno di legge è tornato al Senato, dove la discussione non è ancora cominciata e anzi sarà lunga. Da due settimane sono in corso audizioni per capire se la norma è fatta bene o se possa essere migliorata.

Ecco: su questo non c’è dubbio. Perché, a parte la crudele tortura inferta alla lingua italiana, è certo che questa legge, approvata da una maggioranza Pd-M5S, è confezionata assai male. Il primo sbaglio è la vaghezza: la norma si applica all’universo mondo, non circoscrive quello che è un reato tipico dei pubblici ufficiali se non nel secondo comma («Se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, si applica la pena della reclusione da cinque a 15 anni»). Non è un errore da poco, e già questo ne renderà molto difficile l’applicazione. Ma è soltanto l’inizio. Perché tutta la legge è vaga, generica, priva di tassatività.

Fondamentalmente, il suo scopo è punire il pubblico ufficiale che travalica i suoi doveri e provoca sofferenze inutili e gratuite a persone affidate alla sua custodia. Invece ipotizza come «tortura» la semplice «minaccia» di cagionare sofferenza. Il testo approvato dal Senato oltre un anno fa era scritto meglio, era più preciso. C’è soltanto da sperare che i senatori riescano a rimediare…

Che fatica, però. Di una norma italiana sulla tortura si parla da quasi trent’anni. La Convenzione contro la tortura fu approvata dall’assemblea generale dell’Onu il 10 dicembre 1984. Nel 1988 (sesto governo Fanfani, un’altra era storica) l’Italia ratificò la Convenzione, impegnandosi a trasformarla in legge. Da allora sono passati 27 anni e 19 governi, però il reato non è ancora entrato nel codice penale. Ora, dopo che lo scorso 7 aprile la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che fu tortura quel che accadde nel luglio 2001 alla scuola Diaz di Genova, improvvisamente tutto deve essere accelerato.

Ma la corsa (tanto più se fatta senza prendere fiato) non fa bene alle leggi. E difatti nelle audizioni in Senato parlano i vertici delle forze dell’ordine, e manifestano una gran paura. Non hanno tutti i torti: con il testo varato dalla Camera sarebbe passibile d’arresto in quanto “torturatore” (basta la pena minima superiore ai 5 anni) l’agente di polizia che tira una manganellata («cagiona acuta sofferenza») al manifestante violento che resiste all’arresto (un reato a sua volta punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni). Una follia che solo alla sua enunciazione già paralizza poliziotti e carabinieri di ogni ordine e grado.

Lo volete leggere, allora, un testo corretto e non ambiguo che potrebbe essere la buona base per una legge sulla tortura? Eccolo: «È tortura qualsiasi atto mediante il quale un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio infligge a una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine di: a) ottenere informazioni o confessioni; b) punirla per un atto che ha commesso o è sospettata aver commesso; c) intimorirla o fare pressione su di lei, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione. Il termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime».

Questo testo, con l’omissione di qualche inciso, è esattamente quello dell’articolo 1 della Convenzione varata dall’Onu nel dicembre 1984. Un modesto suggerimento a deputati e senatori: andate a rileggerlo. E, magari, copiatelo.

@mautortorella

Foto carcere da Shutterstock

Articoli correlati

1 commento

  1. Nicola

    Negli ultimi anni tra pacchetti sicurezza e norme politically correct hanno introdotto diversi nuovi reati, questo è uno dei pochi su cui c’è timidezza. Ci vuole, se no siamo di nuovo li tra chi difende le fdo senza se e senza ma (mele marce incluse) e quelli che acab a ogni pié sospinto. Con le leggi attuali la prescrizione è dietro l’angolo. L’intenzione è buona, poi la formulazione si può sempre migliorare. Del resto tutto il codice Rocco richiede buon fiato 🙂

I commenti sono chiusi.