
Tutta la verità sulla minaccia dei derivati
Dopo averli difesi a oltranza, alla fine anche il mitico presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, ha dovuto ammettere che sui derivati si era “parzialmente” sbagliato. Avvicinandosi così alle posizioni di Warren Buffett, il finanziere di maggior successo della storia, che allo scoppiare della crisi dei mutui subprime li aveva definiti addirittura «strumenti finanziari di distruzione di massa». Non sorprende quindi che anche in Italia, complici alcuni recenti scandali che vedono coinvolte banche blasonate ed enti locali di primaria importanza, si stia facendo strada una mentalità sempre più ostile nei confronti di tali prodotti, a cui vengono addossate responsabilità quasi sistemiche e attribuito il ruolo di capro espiatorio negli episodi di malaffare che emergono ormai in ogni dove nel nostro paese. Con buone ragioni, sembra di poter argomentare a prima vista, guardando per esempio alla vicenda dei maxi-derivati (con maxi-perdite) Santorini e Alexandria, venduti da grandi banche d’affari internazionali al Monte dei Paschi di Siena, e all’utilizzo di più lunga data e spesso disinvolto di questi strumenti da parte di molte Regioni, Province e Comuni (favorito non inconsapevolmente da molti istituti di credito), che hanno provocato ingenti passivi nei bilanci di non pochi enti locali.
Ma è proprio vero che i derivati, come sostengono alcuni osservatori, rappresentano il nuovo cancro del sistema finanziario e possono minare addirittura le fondamenta del nostro assetto economico e sociale? Ed è legittimo considerare gli istituti di credito alla stregua di untori che spargono germi di distruzione e di corruttela nell’intero paese?
Sposare tesi di questo tipo, se si osservano bene i dati, appare un po’ azzardato. Quanto meno in rapporto all’Italia. Maggiore prudenza deriva anche da un’analisi della natura stessa del derivato (che altro non è se non uno strumento di gestione del rischio) e del modo in cui viene, in moltissimi casi, correttamente utilizzato. I dati della Banca dei regolamenti internazionali (Bri) di Basilea, considerata la banca centrale delle banche centrali di tutto il mondo, segnalano che il valore complessivo dei derivati, a livello globale, è cresciuto in maniera ragguardevole negli ultimi 10 anni, passando da 107 mila miliardi di dollari nel 2002 a 639 mila miliardi nel 2012, attestandosi così a un livello pari a oltre nove volte il prodotto interno lordo (pil) mondiale, ossia la ricchezza prodotta ogni anno sul pianeta. Ma in Italia questo rapporto è nettamente più favorevole rispetto sia al dato globale, sia a quello di altri paesi ben più finanziarizzati come Stati Uniti e Gran Bretagna; e la situazione si presenta, dunque, più equilibrata grazie a un valore nozionale dei derivati di circa 10 mila miliardi di dollari, pari a cinque volte il nostro pil.
Non bisogna poi confondere, sottolineano gli esperti, il ragguardevole valore nozionale dei derivati, che esprime il valore complessivo delle negoziazioni, con la perdita o il guadagno su tali prodotti che andrebbero registrati nel caso in cui un derivato venisse chiuso, prima della sua scadenza, in presenza di un valore di mercato negativo o positivo. Tale valore di mercato, che esprime la perdita o l’utile potenziale su un derivato, corrisponde, infatti, solo a una frazione del nozionale complessivo. E nel 2012 la perdita potenziale ammontava, a livello mondiale, al 4 per cento del valore complessivo dei derivati, cioè a 25 mila miliardi di dollari (in calo del 7 per cento rispetto all’anno precedente). Alle perdite di chi ha acquistato un derivato corrispondono, inoltre, generalmente dei guadagni da parte di chi lo ha venduto, e viceversa. Per il sistema economico, il gioco può considerarsi per molti aspetti a somma zero, soprattutto nel caso in cui acquirente e venditore appartengano allo stesso paese.
Emerge così una delle caratteristiche salienti dei derivati, strumenti che permettono di scommettere contro qualcuno (tipicamente, la banca che li vende) sull’andamento di qualcosa da cui “deriva”, appunto, il valore di tali prodotti: un tasso di interesse, una valuta, un titolo azionario, un indice di borsa, ma anche materie prime come oro e petrolio, prodotti agricoli come riso, grano e arance. Se la scommessa è vincente, si registra il guadagno; in caso contrario, arrivano le perdite.
DALLE BANCHE ALLE IMPRESE. Il derivato è dunque uno strumento in sé neutrale, intrinsecamente né buono né cattivo. Se usato in maniera corretta, ritengono gli esperti, aiuta a gestire in maniera più efficiente i rischi e a limitare, o ad annullare, le perdite che, per esempio, un consumatore può subire dal forte rialzo dei tassi di interesse, nel caso in cui abbia stipulato un mutuo a tasso variabile, o che un’azienda esportatrice può registrare al verificarsi di una sensibile oscillazione della valuta dei paesi nei quali vende i propri beni. Non va dimenticato, inoltre, che i derivati sono utilizzati abitualmente dai governi – in particolare da quelli come il nostro, caratterizzati da un debito pubblico molto elevato – per ottimizzare la gestione del debito stesso in termini di costo, flessibilità e profilo di rischio.
Su quest’ultimo fronte la situazione italiana non presenta specifici elementi di preoccupazione. Come ricordato, infatti, poche settimane fa da Maria Cannata, il dirigente generale del ministero dell’Economia e delle finanze responsabile dell’elevato debito pubblico italiano (pari al 127 per cento del pil), il Tesoro ha attivato strumenti derivati che hanno come sottostante un valore nozionale di circa 160 miliardi di euro, pari al 10 per cento dello stock di debito. Un ammontare limitato. «In altri paesi la percentuale è superiore e nessuno si scandalizza», ha aggiunto Cannata, osservando che in Italia «la parola derivati è diventata il male assoluto, ma tali strumenti vanno usati in modo appropriato. È come con i coltelli da cucina: tagliano bene la carne, ma possono anche uccidere una persona.
Non per questo non bisogna tenerli in cucina».
Venendo al settore bancario, quello apparentemente più coinvolto a livello globale dal fenomeno dei derivati, una recente indagine della Banca d’Italia mostra che nel nostro paese gli istituti di credito hanno in portafoglio derivati «per una quota assai modesta (pari all’1,6 per cento) dell’intero campione dei paesi» oggetto dell’indagine della Bri. E nel caso delle banche italiane, sottolinea via Nazionale, si registra «un valore lordo positivo superiore a quello negativo (259,7 e 256 miliardi di dollari, rispettivamente)»: segno che sui derivati i nostri istituti registrano più guadagni che perdite. Uno studio di Mediobanca evidenzia, inoltre, che analizzando il rapporto tra derivati in portafoglio e totale degli attivi delle banche, i gruppi italiani appaiono posizionati meglio e corrono meno rischi della maggior parte dei concorrenti europei, in particolare tedeschi, inglesi, francesi e svizzeri. Recentemente il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha osservato che «la rilevanza di questi prodotti è per le banche italiane contenuta, decisamente minore che per le banche degli altri principali paesi. I contratti derivati e i prodotti finanziari strutturati possono facilitare la gestione dei rischi da parte di operatori consapevoli».
Passiamo ora al cuore del sistema produttivo, rappresentato dal mondo delle imprese. A offrirci un’interessante analisi sull’utilizzo dei derivati da parte delle aziende italiane è ancora la nostra banca centrale, spiegando non solo che a livello generale «l’esposizione in derivati rappresenta una quota modesta dell’indebitamento delle imprese nei confronti delle banche», ma anche che il ricorso a tali strumenti in Italia è in linea con quanto avviene nelle principali economie del mondo, e lievemente inferiore alle situazioni in essere negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. L’analisi di Padoa-Schioppa
L’ANALISI DI PADOA-SCHIOPPA. I numeri dicono che, nel 2012, erano 42.000 le aziende italiane ad aver sottoscritto derivati con istituti di credito per un valore nozionale pari a 170 miliardi di euro, registrando una posizione netta negativa per 6,3 miliardi di euro. Le perdite potenziali delle aziende si sono attestate così a un livello inferiore al 4 per cento del valore nozionale dei derivati, in linea con il dato globale emerso dall’indagine della Bri. In un’ottica di sistema paese si può osservare che, a fronte delle potenziali perdite a carico del mondo delle imprese, il mondo bancario italiano (che i derivati li ha venduti) registrerebbe un guadagno potenziale di pari importo. Come ha ricordato pochi giorni fa Sergio Romano sul Corriere della Sera, citando Tommaso Padoa-Schioppa, i derivati consentono «una migliore distribuzione e gestione dei rischi, aiutano a stabilizzare un’economia, proteggono un’impresa dalla volatilità dei cambi. In quanto tali sono di beneficio all’economia». Ma è altrettanto vero che, oltre ad avere «il vantaggio di consentire una gestione più efficiente dei rischi che esistono», questi prodotti hanno «lo svantaggio di prestarsi alla creazione di rischi che non esistono». Bisogna non abusarne, utilizzandoli, secondo le parole del governatore Visco, per «assumere posizioni speculative ad alto rischio» o per «mascherare l’impatto economico di operazioni pregresse, sfruttando gli ampi spazi interpretativi concessi dai princìpi contabili». Proprio quanto accaduto nel mondo degli enti locali e al Monte dei Paschi di Siena con il management precedente.
Sarebbe lungo anche solo elencare i casi di “malagestione” operata da numerosi amministratori pubblici, abbinati non di rado a pratiche di “malaffare” tra banche che hanno venduto derivati e politici che li hanno acquistati in un’ottica puramente speculativa, spacciando per legittime iniziative di ristrutturazione dell’indebitamento in essere operazioni volte a nascondere delle perdite o a creare nuovo debito per finanziare la spesa corrente, caricandone l’onere sulle future generazioni.
IL CASO DEL COMUNE DI MILANO. Tra i nomi rimbalzati sui media negli ultimi anni, coinvolti nelle indagini di numerose procure che hanno dato luogo a processi sfociati nella condanna di alcune banche, come nel caso del comune di Milano, vi è larga parte della geografia nazionale. Sul fronte delle Regioni, si viaggia dal Piemonte alla Lombardia, dal Lazio all’Abruzzo, dalla Campania al Molise, dalla Puglia alla Sicilia. Passando ai Comuni, grandi e piccoli, si ricordano, tra i moltissimi casi, quelli di Milano e Verona, Savona e Catanzaro, Firenze e Pisa, Orvieto e Lecco, Napoli e Messina. Da qui a dipingere l’Italia come una polveriera zeppa di prodotti tossici pronta a esplodere, tuttavia, il passo non è breve. Anche perché l’attività in derivati degli enti locali è drasticamente diminuita negli ultimi anni, rendendo così meno probabile l’emergere di nuovi casi in futuro, grazie alle norme vincolanti emanate dal ministero dell’Economia e delle finanze a partire dal 2007, rafforzate ora da un regolamento europeo che introduce nuove regole di trasparenza e più stringenti obblighi di utilizzo di tali strumenti. Tra il 2009 e il 2012, il numero di enti locali con derivati in portafoglio si è dimezzato (da 537 a 266) e il valore nozionale dei derivati è diminuito del 24 per cento.
Di corto respiro appare anche il tentativo di addossare ai derivati come tali una connotazione etica negativa perché intorno a essi si è sviluppato del malaffare. Sarebbe come demonizzare ospedali e autostrade, ricordando che nel settore edilizio e in quello sanitario la corruzione ha assunto storicamente dimensioni più rilevanti rispetto ad altri ambiti. O pretendere di abolire le automobili perché il traffico provoca inquinamento e incidenti stradali. Sarebbe utile riflettere, piuttosto, sull’apparente paradosso di quanto avvenuto recentemente a Milano. Dove quattro banche internazionali sono state condannate in primo grado per truffa aggravata nei confronti del capoluogo lombardo, a causa di un’operazione in derivati risalente al 2005, e dovranno rimborsare quasi 90 milioni di euro all’amministrazione comunale. Solo pochi mesi prima, tuttavia, Palazzo Marino aveva concluso un accordo molto vantaggioso con le stesse banche che prevedeva il versamento di 750 milioni in 23 anni nelle casse comunali, con un guadagno netto da parte del Comune superiore a 250 milioni.
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