
Tu sì, io no. In piazza non ci sto
Ha un bel dire Sergio Cofferati che, terminato il suo mandato tra tre mesi, tornerà «a fare i conti alla Pirelli». La manifestazione di sabato 23 marzo contro l’articolo 18 ha tutta l’aria di essere la cerimonia d’incoronazione del nuovo leader della sinistra. E Sergio, novello Napoleone, non ha bisogno di qualcuno che lo incoroni. Farà da sé, dall’alto dei suoi 5 milioni di iscritti al sindacato, carroarmato organizzato della sinistra che “resiste”.
Ci fosse stata Margaret
Un milione. Forse anche più saranno in piazza ad acclamarlo. Organizzazione imponente: 8mila pullman (25 euro a testa per partecipare al raduno), 53 treni speciali, 5 voli charter, 3 navi dalle isole. Dalla Liguria in arrivo 40mila rose e 80mila garofani. Mobilitazione generale al grido «Tu sì, tu no. All’art. 18 non ci sto». Nel ’94 furono le pensioni, oggi l’articolo 18 ma, aldilà delle dichiarazioni di rito («facciamo questo nell’interesse dei lavoratori»), rimane il messaggio trasversale che, dal governo al centrosinistra, si vuole far passare. Che la manifestazione abbia carattere politico e non sociale è chiaro. Come mostrato dal grafico (pagina 5), le ore di sciopero indette dal sindacato negli anni del primo governo Berlusconi sono state quattro volte superiori a quelle di ogni singolo anno del governo Ulivo. E si noti come a fare la differenza siano stati i «conflitti estranei al rapporto di lavoro». Cioè quelli di natura non sindacale. Come sussurrano alla sede della Cisl in via Po a Roma: «Durante gli anni del governo Ulivo sembrava di vivere nel paese di Bengodi. E chi osava protestare contro Amato o Dini veniva tacitato. Cofferati rimproverò spesso D’Antoni: “Gli scioperi non si indicono, si fanno”». Quando ci provò D’Alema a toccare l’articolo 18 dovette subito fare marcia indietro tanto che il leader Ds, come ricordato da Augusto Minzolini recentemente su Panorama, arrivò ad affermare: «All’Italia è mancata soprattutto una Thatcher». Negli ambienti sindacali fanno notare che l’organizzazione è stata affidata non alla segreteria organizzativa, come si è soliti fare, ma ad Achille Passoni, portavoce personale di Cofferati. E così alla Cisl mugugnano perché «tale decisione ha tutta l’aria di un tentativo di tagliarci fuori».
La flessibilità esiste già. La legge no
Ma nel merito dell’articolo 18 che dire? Innanzitutto che riguarda pochissimi lavoratori: l’anno scorso ne sono stati reintegrati solo 95. In secondo luogo che il sindacato è rimasto indietro rispetto ai mutamenti globali. Come sostiene Giuseppe Porro, professore associato di Economia del lavoro all’Università di Trieste, «il lavoro in questi anni si è già flessibilizzato, perché la maggior parte delle nuove assunzioni è costituita da contratti cosiddetti atipici (contratti a tempo determinato, part time, lavoro interinale, ecc.). Si tratta di forme di assunzione diverse da quelle previste dai contratti a tempo pieno indeterminato. C’è quindi un diffuso fenomeno di flessibilità che riguarda una fetta consistente dei lavoratori, un fenomeno che richiede di essere inquadrato e governato». Di questi rapidi mutamenti ne è testimone il boom del lavoro interinale; le ultime statistiche indicano che in Italia avverrà una crescita entro il 2010 del 35 per cento (la più alta d’Europa). Il boom si è avuto l’anno scorso con 650mila nuovi rapporti di lavoro e un fatturato globale intorno ai 2,5 miliardi di euro, il 44 per cento in più dell’anno precedente. Obiettivo Lavoro, leader del settore, in 4 anni di attività, ha avviato al lavoro 92mila persone e prodotto un fatturato di 470 milioni di euro.
E adesso chi mi fa la tessera?
Su 5 milioni di iscritti alla Cgil il 60 per cento è composto da pensionati. Il restante 40 per cento ha un’età compresa tra i 40 e i 50 anni. «È tutta gente che fatica a cambiare il proprio modo di lavorare – proseguono alla Cisl – e che non sa adattarsi alle nuove esigenze del mercato». Per questi “splendidi quarantenni” «la parola “flessibilità” significa “espulsione”». Questo irrigidimento blocca un reale ammodernamento perché, spiega Porro, «per cominciare a riformare il mercato del lavoro italiano bisognerebbe partire dai bisogni concreti non solo di chi è occupato, ma anche di chi è “occupabile” cominciando dai contratti di collaborazione coordinata e continuativa che non hanno ancora una legge quadro. Questi contratti riguardano molti lavoratori, diffusi nel terziario, giovani e abbastanza qualificati. E i diplomati/laureati e lavoratori in uscita. Si tratta di un milione di lavoratori cui manca ancora una chiara copertura previdenziale e la certezza di poter fruire di una pensione». Se il sindacato va nella direzione di difendere un sistema-lavoro precostituito (e qualche tessera che fa sempre comodo) i giovani cercano nuove forme per raggiungere un’occupazione. Non è un mistero che all’interno di Cgil, Cisl e Uil sia stiano studiando nuove strategie per raggiungerli. «Le nuove generazioni hanno una maggior capacità di adattarsi e di spostarsi. Non sono legati all’idea di posto fisso». Che, sul piano pratico, è per i sindacati una vera disdetta; scomparendo l’operaio fisso in fabbrica non si hanno più punti di riferimento. Oggi, eleggere un rappresentante del sindacato all’interno di una ditta è un problema. C’è il rischio che dopo due mesi venga trasferito o cambi lavoro.
Pensate ai vostri figli
La colorita espressione del premier Berlusconi, «è una rivolta dei padri contro i figli», è meno lontana dalla realtà di quanto possa apparire. Secondo un recente sondaggio di AlmaLaurea, a un anno dal conseguimento del titolo di studio, il 33 per cento dei neodottori è dipendente a tempo indeterminato, l’11 per cento svolge un lavoro autonomo, il 13 per cento ha un contratto di formazione lavoro e il 39 per cento è impiegato in forma cosiddetta atipica, con contratti di collaborazione o a tempo determinato. Nessuno di loro sembra avere intenzione di rivolgersi al sindacato, nel quale non vede una reale tutela dei propri interessi. L’augurio è che la strada intrapresa dal governo arrivi a dare dei frutti reali. Una riforma a metà sarebbe più dannosa che una non-riforma. Come ci dice il professor Porro: «studiosi della materia come Andrea Ichino e Giuseppe Bertola hanno sottolineato come le riforme del mercato del lavoro che non siano definitive rischino di creare più danni che benefici. In un articolo intitolato “In mezzo al guado” (“Crossing the river”, Economic Policy, 1995), i due studiosi sostenevano che se la flessibilità introdotta nel mercato del lavoro viene intesa come revocabile, gli imprenditori sono portati a non assumere, paventando il fatto che al momento della revoca si troverebbero sul collo una manodopera che, in caso di necessità, non potrebbero più licenziare».
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