E se Trump e Obama si somigliassero più di quanto sembri?

Di Mattia Ferraresi
10 Aprile 2016
Al di là delle apparenze e della “narrazione”, Barack e The Donald sono molto più concordi di quanto sembri. Perfino sui clandestini
epa05247044 Businessman and US Republican presidential candidate Donald Trump reacts as he speaks at a campaign rally in Bethpage, on Long Island, New York, USA, 06 April 2016. Voters will go to the polls for the New York primary on 19 April. EPA/PETER FOLEY

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

David Axelrod, uno dei principali “narratori” della figura politica di Obama e delle sue gesta, ha una teoria obamacentrica per spiegare l’ascesa di Donald Trump. L’idea di fondo è che alle elezioni presidenziali open-seat, quelle in cui il presidente in carica non si ricandida perché è alla fine del secondo mandato, gli elettori americani tendono a cercare conforto nelle figure che hanno tratti opposti rispetto a quella che ha guidato il paese per gli otto anni precedenti. Gli isolazionisti vanno forte dopo un periodo d’internazionalismo, la protezione del big government fa gola dopo una presidenza che ha snellito la silhouette dello Stato, il pacifista ha una chance se viene dopo un cowboy e le personalità infiammabili hanno più capacità di penetrazione dopo presidenti flemmatici e cerebrali. L’insoddisfazione, il tedio per la situazione esistente induce il desiderio, magari frivolo e capriccioso, di un cambiamento radicale.

Axelrod ha messo a punto questa teoria pro domo Obama calibrandola non soltanto sulla policy (sarebbe una teoria dell’alternanza come ce ne sono tante nei contesti bipolaristi) ma anche sulle qualità personali, sulla statura presidenziale, sulla stoffa umana, per sostenere che se una significativa fetta dell’America oggi è affascinata da un tamarro con argomentazioni fascistoidi e un retroterra culturale da tv spazzatura è perché negli ultimi otto anni è stata governata da un concentrato di ragionevolezza, acume, equilibrio, buon senso, buon gusto e buone letture.

Il ruolo degli yankees nel mondo
A dirla tutta, Axelrod aveva già messo a fuoco questi pensieri nel 2006, quando, applicando lo stesso ragionamento all’impopolare George W. Bush, aveva indicato a un allora semisconosciuto senatore dell’Illinois che c’era spazio per una corsa presidenziale. Per non confondere i lettori più distratti, Axelrod l’ha chiamata la “teoria Obama”. Tralasciando il fatto che, se la teoria fosse vera, l’America dovrebbe augurarsi di non avere mai un grande presidente, il quale finirebbe per essere soltanto una felice parentesi fra due trogloditi pericolosi, e a quel punto un continuum di mediocrità sarebbe largamente preferibile; e tralasciando ciò che questa teoria potrebbe significare se applicata a Hillary Clinton, senza poi nemmeno menzionare il giudizio che questo schema interpretativo getta sulle capacità di discernimento degli elettori, va notato che la chiave di lettura di Axelrod lega in una qualche forma di rapporto il fenomeno Obama e il fenomeno Trump. Ma dove l’ex consigliere obamiano diventato una scaltrissima “talking head” del circo elettorale vede soltanto contrasti e meccanismi di compensazione, si possono invece notare rapporti di continuità. Se si rovescia il binocolo interpretativo di Axelrod e si guarda attraverso quelle lenti l’ascesa di Trump, si può vedere che le condizioni per l’affermazione del trumpismo sono state poste negli ultimi otto anni, non è soltanto il riflesso di un elettorato annoiato e ciclotimico che cerca il diverso, l’opposto.

La visione dei rapporti internazionali e il ruolo dell’America nel mondo che i due propongono forniscono indizi rilevanti. La “dottrina Obama”, ircocervo che tutti i cacciatori di idee del pianeta hanno invano inseguito, postula una riduzione dell’impronta degli Stati Uniti negli affari globali, un disimpegno che si è condensato in varie formule, dal “leading from behind” al “don’t do stupid stuff”, declinandosi in diverse modalità operative: la guerra asettica dei droni, l’antiterrorismo fatto di incursioni mirate e tecniche di polizia, la responsabilizzazione degli alleati, l’inazione elevata a regola.

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Mai più giri di giostra gratis
Anche quando l’America di Obama ha preso l’iniziativa militare, come in Libia, s’è curata di confezionarla e presentarla come il mero supporto a un’euroguerra mossa per ragioni umanitarie. L’orientamento, la natura che queste scelte esprimono non è poi dissimile da quella confusamente (e rumorosamente) affermata da Trump.

La responsabilizzazione degli alleati è stato un altro caposaldo della gestione della politica estera obamiana, dapprima etichettata come “multilateralista”, aggettivo piegato a guisa di complimento dopo tanto unilateralismo bushiano, e poi come “facciamo un passo indietro, forse anche due o tre”. Oggi molti, inorriditi, si scagliano contro il gran tradimento dell’identità atlantista di Trump, che beffeggia gli scrocconi della Nato dicendo che l’alleanza «costa una fortuna» e alla fine il conto lo paga sempre Washington, senza ricavarne molta protezione in cambio. Quale assurda ingenuità, che volgare semplificazione della materia, che scarsa conoscenza delle cose del mondo, dice il coro degli esperti di politica estera. A ben vedere, però, Obama è il presidente che ha, se non inaugurato, decisamente incrementato la pressione sul sistema tradizionale di alleanze, a partire proprio dalla Nato.

Nel 2011 l’allora segretario della Difesa, Bob Gates, a Bruxelles ha sbattuto in faccia agli alleati tutte le loro manchevolezze in quest’alleanza asimmetrica e insostenibile. Lo ha fatto in spirito di amicizia, senza voler propiziare incidenti o strappi, ma nemmeno presentando sconti e annacquamenti. L’amministrazione ha poi continuato a ripetere avvertimenti e a mandare messaggi di simile tenore. Con la crisi siriana e l’accordo nucleare iraniano, momenti di una più ampia ridefinzione della geopolitica mediorientale sull’asse sciiti-sunniti, Obama ha anche esteso il trattamento spiccio, pragmatico all’Arabia Saudita, sempre meno cruciale per gli approvvigionamenti petroliferi e dunque invitata con crescente calore a prendersi cura di se stessa e a essere partner effettivo degli americani nell’area.

Obama di recente ha detto che è «infastidito dai free rider», quelli che vogliono continuare a farsi giri gratis sulla gran giostra della sicurezza americana. La corsa è finita. Da notare che Gates, che ha promosso la dottrina della franchezza nei rapporti con la Nato, non è un figlio ideologico di Obama ma di Bush il Vecchio, per tramite del suo consigliere per la sicurezza nazionale, il maestro di pragmatismi Brent Scowcroft. Notoriamente ammirato da Obama, il generale Scowcroft conta fra i suoi molti protetti anche Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations, che Trump ha citato come sua fonte d’ispirazione e punto di riferimento in tema di politica estera e sicurezza. Quando l’ha detto, il coro degli esperti di politica estera ha sottolineato il destino gramo del povero Haass, maledetto dal più tossico degli endorsement, ma a ben vedere in questa linea di continuità il bacio non è tanto mortale.

Lo stato e i suoi muri
Il columnist Eli Lake ha fatto una ricognizione fredda delle teorie dei rapporti internazionali che Obama e Trump più o meno consapevolmente riflettono ed esprimono, e ne ha cavato fuori una singola dottrina, la “Obama-Trump doctrine”. Il politologo della Oregon State University Chris Nichols ha definito Obama un presidente “di transizione” fra una visione internazionalista e l’isolazionismo tradizionale da cui Trump pesca a piene mani, quasi mettendo Obama nel ruolo di ancella o apripista del biondo palazzinaro prestato alla politica.

Questo senza contare altri ordini di somiglianze. Trump è ben lontano dall’essere un fanatico dello small government, è un sostenitore del potere dello Stato (posizione non estranea alla tradizione conservatrice, ma è passato così tanto tempo che ormai sembra un’esclusiva della sinistra) e a lungo ha fatto il tifo per l’introduzione di un sistema sanitario virtualmente identico a quell’Obamacare che ora promette di revocare se arriverà alla Casa Bianca. E sull’immigrazione, catalizzatore degli istinti protezionisti e delle forme di nazionalismo che scorrono nelle vene del trumpismo? Basterebbe ricordare che in due mandati Obama ha respinto o rimpatriato più clandestini di quanti ne abbiano rimandati a casa tutti i presidenti americani del Novecento, oltre due milioni e mezzo. Certo, la retorica dei muri, del waterboarding e dei “messicani stupratori” non appartiene nemmeno in sogno a Obama e al suo vocabolario di civiltà affinato alla Columbia e poi alla scuola di legge di Harvard, ma poi quando si tratta di fare il presidente non fa tanti giri di parole (se non per distrarre e depistare, s’intende).

Siamo proprio sicuri che, come dice Axelrod, sia per un desiderio di discontinuità che una parte del popolo americano sia affascinato da questo personaggio da vaudeville? Forse l’America non guarda con complice simpatia all’uomo bianco arrabbiato soltanto perché fa contrasto cromatico-emotivo con il nero cool e professorale. Il contrasto c’è, com’è evidente a chiunque non sia sbarcato dieci minuti fa da Plutone (chi è sbarcato da almeno mezz’ora ha già afferrato tutto), ma è innanzitutto una differenza di modi e simboli, di portamento e presentabilità, di tono e logica, mentre laggiù, nella profondità delle scelte politiche e delle visioni, ci sono più punti in comune di quanti se ne possano vedere a occhio nudo, come spesso accade fra leader diversissimi fra loro ma guidati dalla comune stella polare del pragmatismo. Trump è un anti Obama e allo stesso tempo è un suo gemello rozzo e sboccato, senza freni inibitori né Super Io, uno che articola con foga istintiva, cosa che immediatamente lo squalifica agli occhi dell’élite, punti politici che magari Obama ha svolto con il puntiglio di un’orda di avvocati e ha servito con lo spin giusto a miriadi di giornalisti bendisposti.

Uno “straw man” fatto e finito?
Bobby Jindal, governatore repubblicano della Louisiana ed esponente del fronte “Never Trump” ha sviluppato la tesi della paradossale continuità fra Trump e Obama, o, meglio, della trumpismo come frutto inevitabile della semina di Obama: «Il presidente ama costruire “straw men” per poter contrastare la sua personalità eroica contro di loro. Ma Donald Trump non ha bisogno di essere costruito. È capace di essere assurdo da solo, senza aiuti esterni. Senza il presidente Obama non c’è Donald Trump. Trump spesso diagnostica correttamente i mali che Obama ha causato, ma le sue terapie sono spesso sbagliate quanto quelle del presidente. L’America merita di meglio». Se non fosse assurdo, verrebbe quasi da pensare che Trump sia l’ultima, la più sofistica, la più sottile e geniale trovata di Obama.

@mattiaferraresi

Foto Ansa

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