
Tentar (un giudizio) non nuoce
Trump e la tentazione del potere assoluto

Chi segue questa mia rubrica sa che sono un popolare anzi, per essere più precisi, un liberal-popolare del centrodestra, non un popolare di sinistra. Dunque, se fossi negli Stati Uniti, certamente mi sentirei più affine ai repubblicani, con cui condivido molte idee politiche, in particolare una visione fondata sul primato della società rispetto allo Stato. Probabilmente, quindi, avrei votato Donald Trump.
Però, dopo questi primi settanta giorni della sua presidenza, non posso tacere il disagio profondo che provo rispetto all’idea di potere che Trump vuole incarnare. Certo, sono ben consapevole di essere un osservatore marginale, di fronte a chi oggi guida la nazione più potente del mondo. Eppure, con la libertà di chi sente il dovere di esprimere un pensiero in cui crede e si riconosce, affermo che la mia idea di potere è radicalmente diversa dalla sua. Quella che Trump ha incarnato finora mi inquieta. E, più ancora, mi appare pericolosa.
Un potere senza limiti
Sono tre le ragioni principali delle mie preoccupazioni.
La prima: Trump esprime un’idea di potere che non sembra fare i conti con alcun confine, né etico né giuridico. Il potere che Trump incarna si misura esclusivamente sulla forza. Se io sono più forte di te, se ho “carte migliori delle tue”, posso fare quello che voglio e tu devi stare, che ti piaccia o no, al mio gioco. È un’idea intrinsecamente ricattatoria, come si è visto nei confronti di Zelensky e dell’Ucraina, in tutta la questione relativa ai dazi o ai territori che gli interessano, come la Groenlandia.
Io invece sono convinto che il potere debba avere dei limiti. Giuridici, certo, i famosi checks and balances. Ma, ancor prima, etici e morali. Senza questi limiti il potere diventa la legge della giungla, cioè l’imposizione del più forte sul più debole. Tutta la tradizione occidentale, tutta la nostra cultura politica e giuridica, si giustifica nel tentativo di costruire un’idea e una prassi del potere che non sia solo forza e sopraffazione. Per questo lo ritengo pericoloso: l’esperienza della storia ha dimostrato che, ogni volta in cui un potere si è considerato senza limiti, è stato capace delle peggiori nefandezze. Se riteniamo che l’unico aspetto che conta del potere sia la forza, allora perché dovremmo condannare Hitler? Lui, avendo il potere e la forza per farlo, ritenendo gli ebrei nemici, ha deciso di sterminarne sei milioni.
Cosa dira oggi Trump?
Il secondo punto che mi preoccupa è l’uso che Trump fa della comunicazione. Ogni mattina ci svegliamo pensando: chissà cosa dirà Trump oggi. In qualche modo siamo consapevoli che ha scelto di dettare il registro della comunicazione a livello globale, ponendo lui sul tavolo i temi di discussione. Se fosse solo questo, in fondo si tratterebbe di un abile comunicatore politico. Invece mi inquieta il fatto che questa comunicazione è in stretta alleanza con chi oggi è in grado di manipolare i più importanti strumenti mediatici.
Non a caso, il giorno del suo insediamento, non aveva accanto i parlamentari repubblicani, ma l’intero “stato maggiore” della Silicon Valley. Senza alcun bilanciamento, il confine tra comunicazione e manipolazione delle coscienze diventa impalpabile. Temo un potere che, per affermarsi, voglia usare gli strumenti di comunicazione per portare la gente a pensare come lui, ignorando la verità. Un potere che non rispetta la verità e si impone con la forza della manipolazione è ancora più pericoloso di quello che si impone con la forza disciplinare.
Le ragioni della forza
Il terzo elemento che mi preoccupa riguarda il funzionamento della democrazia. Trump afferma una concezione del potere basata sull’idea che anche in politica, come negli affari, uno vince e l’altro perde. Come ho già detto anche su queste pagine, io penso che in politica sia invece necessario immaginare e praticare una concezione del potere win-win, che, nella misura del possibile, provi a far vincere tutti.
La conseguenza di una concezione del potere in cui qualcuno deve per forza perdere è che non si possono costruire vere alleanze. Il potere non è la guerra, ma la possibilità di vivere insieme, costruendo le condizioni per ottenere pace e prosperità per tutti. La politica non è una fossa, ma un ponte.
Certo, il potere è anche l’arte di indurre l’altro a compiere ciò che vuoi tu e che egli inizialmente non avrebbe scelto. Ma ci sono due modi per farlo. Il primo è la convinzione: uso le mie ragioni perché l’altro si renda conto che quello che propongo io è meglio di ciò che pensava lui. Il secondo è la forza o il ricatto: ti costringo a fare come voglio io, anche se la pensi diversamente, perché sono più forte.
La prima strada costruisce alleanze. La seconda crea inimicizia. Se io convinco l’altro grazie alle mie ragioni, lo avrò al mio fianco. Ma se l’ho costretto con la forza, nel momento in cui avrò bisogno di lui, non lo troverò.
Questa concezione del potere semina e coltiva il germe di un equilibrio globale basato sul conflitto, non sul rispetto reciproco. E non può che destare inquietudine, soprattutto in un tempo fragile come quello che attraversiamo.
Dirlo, oggi
Concludo ricordando una sorta di “parabola” scritta dal sociologo tedesco Heinrich Popitz nel suo libro Fenomenologia del potere e ripresa recentemente da un amico sacerdote; egli illustra, facendo l’esempio dell’uso delle sedie a sdraio sul ponte di una nave, le dinamiche perverse del potere. Mi ha colpito in particolare un aspetto: quando si innescano i principi su cui si fonda una gestione malata del potere, la possibilità di opporsi esiste solo all’inizio. È solo in quell’istante originario che resta possibile spezzare il meccanismo. Dopo diventa quasi impossibile. Come abbiamo visto nelle tante dittature che hanno insanguinato il secolo scorso.
Io oggi sento la responsabilità di dirlo. Subito. Perché domani non voglio essere tra coloro che hanno taciuto quando si poteva ancora provare a cambiare il corso degli eventi.
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