Trump e la differenza tra un insulto e una pallottola

Di Leone Grotti
17 Settembre 2024
Dopo il secondo attentato all'ex presidente in due mesi, i media progressisti mettono ancora sullo stesso piano le parole violente del repubblicano con chi cerca di accopparlo
Una sostenitrice di Donald Trump indossa la maglietta con la foto del tycoon che si rialza dopo il primo attentato del 13 luglio (foto Ansa)
Una sostenitrice di Donald Trump indossa la maglietta con la foto del tycoon che si rialza dopo il primo attentato del 13 luglio (foto Ansa)

È certamente vero, come scrive Repubblica, che quella negli Stati Uniti è la campagna elettorale per la Casa Bianca più «avvelenata» e carica di odio di sempre. Ma non si può mettere tutto sullo stesso piano, come fa Gianni Riotta in una sua analisi al pari di tanti colleghi sui giornali britannici e americani.

Secondo attentato in due mesi a Trump

Il candidato repubblicano alla presidenza americana, Donald Trump, ha subito il secondo attentato in poco più di due mesi. Ryan Routh, 58 anni, si era appostato all’interno del Golf Course di West Palm Beach con una telecamera e un fucile automatico AK-47, molto più potente dell’AR-15 usato il 13 luglio da Thomas Matthew Crooks a Butler, Pennsylvania, per assassinare l’ex presidente.

Non si sa ancora come Routh facesse a sapere che Trump avrebbe giocato a golf proprio lì quel pomeriggio, ma si è nascosto tra gli alberi a 400 metri dal tycoon prima di essere scovato dai servizi segreti e infine arrestato dopo una breve fuga e uno scontro a fuoco.

La differenza tra insulto e pallottola

Due uomini in due mesi hanno provato a uccidere Trump. Eppure i giornali parlano ancora di violenza generica e paragonano ancora i tentati omicidi alle intemperanze verbali del candidato repubblicano.

Così fa Riotta su Repubblica parlando di «scontro frontale tra due nazioni irriducibili all’intesa»: da una parte c’è Trump che «dai social media tuona: “Io odio Taylor Swift”» e il suo vice J.D. Vance che «insulta in diretta la giornalista veterana di Cnn, Dana Bash [dicendole] “sei disgustosa”».

Dall’altra ci sono uomini che imbracciano fucili automatici, si infrattano tra gli alberi o sui tetti e premono il grilletto. Non per “insultare” Trump, per farlo fuori fisicamente. C’è una bella differenza.

Per i giornali Trump resta una «minaccia»

I giornali progressisti giocano a mettere gli episodi sullo stesso piano. Repubblica sottolinea che «in questa assurda violenza verbale ogni deriva è possibile». Quasi a dire: alla fin fine è colpa di Trump se gli sparano. E se il tycoon è colpevole e chi spara pure (ci mancherebbe altro), la sfidante democratica Kamala Harris e il presidente Joe Biden non hanno niente da rimproverarsi. Loro, spiega Riotta, «provano a emanare un clima di unità nazionale».

In realtà la coppia presidenziale ha dimenticato in fretta il primo attentato. Harris, ad esempio, nove giorni dopo l’attentato di Butler tornava a martellare sui social media: «Donald Trump è una minaccia per la nostra democrazia e lo sappiamo tutti».

Incuranti del clima da caccia alle streghe generato, anche i giornali liberal hanno presto archiviato la sparatoria in Pennsylvania, tornando a definire il tycoon come «dittatore» pronto a prendere il potere per distruggere la democrazia americana.

I media non cambiano registro in America

Si tratta di discorsi molto pericolosi, soprattutto se ripetuti dopo un attentato, e non aveva tutti i torti Trump ad affermare durante il dibattito televisivo con Harris: «Probabilmente mi sono preso una pallottola alla testa per le cose che dicono di me».

Ora che le pallottole si sono moltiplicate, sarebbe ora di cambiare registro. Ma i giornali sembrano incapaci di farlo. Il Guardian, ad esempio, insisteva ancora ieri ricordando le corbellerie pronunciate dall’ex presidente sui migranti: «Trump è l’unico che soffia sul fuoco».

L’equazione pericolosa

I media liberal negli Stati Uniti continuano a descrivere la campagna elettorale come una lotta tra il bene (Harris) e il male (Trump) e non come una legittima sfida tra due politici. Questo tipo di retorica ha fatto presa su un uomo come Routh, che ad aprile scriveva su X: Biden dovrebbe chiamare la propria campagna «KADAF: Mantenere l’America democratica e libera. Quella di Trump dovrebbe chiamarsi MASA, rendere gli americani di nuovo schiavi del loro padrone. Si vota per la DEMOCRAZIA e non possiamo perdere».

Evidentemente Routh non aveva molta fiducia in Kamala Harris, se ha cercato di far fuori fisicamente il suo avversario. E del resto l’uomo che voleva reclutare profughi afghani in Iran e Pakistan per combattere in Ucraina contro la Russia, nel 2022 dichiarava a Newsweek: «Per cosa ci battiamo? Siamo per il bene». E poi chiedeva rivolto a tutti gli americani: «Siamo dalla parte giusta dell’equazione?».

Stancatosi dell’Ucraina, Routh sembra aver trovato un nuovo modo per “stare dalla parte del bene”: assassinare Trump e così salvare la democrazia americana in pericolo. Probabilmente l’uomo è solo un «esaltato», come lo definisce la giornalista Tanya Lukyanova, che lo intervistò l’anno scorso. Ma l’equazione sull’importanza di far fuori il presidente per il bene del paese non l’ha certo inventata lui.

@LeoneGrotti

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