
In Usa la fuga da “diversity, equity, inclusion” continua

Da quando Donald Trump è tornato alla Casa Bianca, la sua furia smantellatrice – in parte affidata ad Elon Musk – ha già colpito ovunque, dai dipendenti federali alle università passando per gli aiuti internazionali fino ai rapporti con gli storici partner europei. Uno degli obiettivi primari da colpire per la nuova Amministrazione fin da subito sono state le commissioni per la Diversity, Equity e Inclusion (i famosi Dei), diventate una sovrastruttura burocratica onnipresente negli ultimi anni. Incaricate di tutelare le minoranze, le commissioni Dei erano ovunque diventate decisive per decidere chi assumere, chi promuovere e chi licenziare, fino a diventare strumento di discriminazione al contrario, poiché prendevano le proprie decisioni basandosi non sul merito dei candidati e dei lavoratori ma sulla loro appartenenza a una o più categorie protette dall’ideologia politicamente corretta del cosiddetto woke.
Una meritoria battaglia che ha iniziato però a sfuggire di mano, superando in alcuni casi il confine tra danni collaterali accettabili e metodi illiberali. Un mese fa il senatore repubblicano Ted Cruz ha presentato un lungo elenco di studi e ricerche universitarie etichettate come woke a cui secondo lui andrebbero tolti i finanziamenti pubblici perché promuoverebbero una «propaganda neo-marxista di lotta di classe». Peccato che nel mucchio siano finiti progetti che di ideologico e woke avevano ben poco, ma avevano la colpa di contenere la parola “equity”, ad esempio.
L’assalto di Trump ai Dei ratifica una rivolta già in atto
In attesa di capire se e come verrà corretto il tiro, non si può non notare che la battaglia trumpiana contro il woke nei posti di lavoro si potrebbe condurre anche con meno zelo, dato che le varie commissioni avevano già iniziato a dare segni di cedimento ben prima delle ultime elezioni americane (ne avevano scritto su Tempi, tra gli altri, Giovanni Maddalena e Mattia Ferraresi): giunta a un picco di grottesco parossismo, l’ideologia politicamente corretta woke ha iniziato a essere abbandonata da sempre più persone e aziende.
La conferma è arrivata anche da un altro osservatore privilegiato delle vicende americane, Federico Rampini, che la scorsa settimana sul Corriere ha scritto che «l’assalto di Trump è solo la ratifica finale di un movimento che era già in atto: una vasta rivolta dal basso contro gli eccessi, le forzature e le imposizioni di queste commissioni Dei. A prendere le distanze da quelle direttive c’era anche un pezzo della sinistra americana, e una parte delle minoranze etniche».
Le aziende non parlano più di diversity, equity e inclusion
Scrive il New York Times che quest’anno il numero di aziende nell’indice S&P 500 che hanno utilizzato il termine “diversità, equità e inclusione” nelle dichiarazioni finanziarie è diminuito di quasi il 60 per cento rispetto al 2024: «Le grandi aziende hanno iniziato a evitare di assumere posizioni forti sui Dei prima del ritorno del presidente Trump, ma la tendenza ha subito una rapida accelerazione in seguito». Paura di ritorsioni? Non solo: «In un certo senso, il cambiamento riflette un modello di aziende che inseguono ciò che sembra più opportuno socialmente e politicamente», spiega con realismo il quotidiano liberal americano.
«Dopo l’uccisione di George Floyd nel maggio 2020 e le proteste di Black Lives Matter che ne sono seguite, molte aziende hanno denunciato l’ingiustizia razziale», salvo iniziare a smettere gradualmente di farlo dopo che la Corte Suprema nel 2023 ha denunciato l’incostituzionalità della affermative action nelle ammissioni al college, decisione che ha avuto ricadute anche sul modo con cui le aziende approvano assunzioni e promozioni.
Il pendolo si allontana dai Dei, le aziende si adeguano ipocritamente
Così come durante il culmine dell’ubriacatura woke anche chi non ci credeva infarciva le proprie linee guida di parole chiave come diversity, equity, inclusion, ora anche chi sinceramente ci crede evita di farlo. «Il pendolo si sta allontanando dai Dei, affermano molti giuristi aziendali, e può essere difficile resistere allo slancio. Le aziende tendono spesso a seguire la massa, che si tratti di adottare un certo approccio alla gestione, una strategia popolare sull’innovazione o un titolo di lavoro che molti dei loro pari stanno aggiungendo all’improvviso», nota il New York Times. «Ma le mode hanno spesso radici superficiali e le aziende potrebbero abbandonare una determinata pratica non appena le espone alla critica sociale o a ricorsi legali».
Qualche giorno fa il Wall Street Journal ha raccontato l’esperienza della grande banca americana Morgan Stanley alle prese con i Dei: «Dopo l’omicidio di George Floyd nel 2020, l’allora Ceo della banca d’investimento James Gorman ha denunciato “l’ingiustizia razziale irrisolta” nella società e ha giurato che Morgan Stanley avrebbe fatto parte della soluzione. La banca ha creato un Institute for Inclusion con consulenti esterni per guidare i suoi sforzi e si è impegnata ad aumentare la quota di minoranze razziali nei suoi ranghi esecutivi, dove era in ritardo rispetto ai rivali. Oggi la banca deve affrontare accuse di discriminazione e cause legali, tra cui diverse negli ultimi mesi, da parte di dipendenti sia bianchi che neri, nonché critiche da parte del personale che afferma che gli sforzi sono stati insufficienti o eccessivamente pesanti».
I danni dell’ossessione politicamente corretta su diversity, equity e inclusion
L’inchiesta racconta di un fallimento che negli anni ha creato discriminazioni e divisioni e alla fine ha scontentato tutti. Sono sempre più numerose le aziende che abbandonano quel tipo di posizionamento, svelando l’ipocrisia di un mondo, quello capitalista, che si accoda alle idee che in un dato momento sembrano garantire più ricevi e meno problemi. È evidente a tutti ora la superficialità degli impegni iniziali di molte aziende sui Dei. La velocità con cui li hanno abbandonati dice quanto ci credessero davvero.
L’ossessione politicamente corretta per la tutela delle minoranze ha negli anni creato un clima di censura e autocensura, promosso o rovinato carriere in base alle opinioni dei singoli sui diritti Lgbtq o sul razzismo sistemico, ha intaccato le università, le scuole, la cultura, le aziende e l’industria dell’intrattenimento. Non ci sono dubbi sul fatto che sia un ideologia da lasciare alle spalle il prima possibile, e che l’errore di chi oggi abolisce i programmi di diversità e inclusione è averli introdotti. Purché per combatterne gli eccessi non si ecceda allo stesso modo dall’estremo opposto. Non serve, l’ideologia woke aveva già iniziato a mostrare tutti i suoi limiti e i suoi difetti.
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