Trovare un senso a queste storie senza lieto fine

Di Leone Grotti
14 Marzo 2017
Viaggio tra gli specialisti della Maddalena Grassi, la Fondazione laica che ha avuto in cura dj Fabo

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Ci sono storie che non hanno un lieto fine. «Storie vere» in cui le famiglie vengono attaccate da «mostri» che non si possono debellare. Ci sono patologie per le quali non è stata ancora trovata una cura, condizioni alle quali non si può porre rimedio, che lasciano prospettive di vita di mesi o di anni, ma alla fine portano alla morte. Eppure non è detto che i «mostri» vincano, la sopraffazione e l’umiliazione non sono un destino ineluttabile. E se si trovano «degni alleati in una lotta che non dà tregua», anche un percorso «in salita, pieno di insidie, può essere trasformato in un sentiero dolce e in discesa che ti porta alla meta senza paura». Così Giuliana Donati ha descritto l’esperienza della malattia che si è portata via suo marito Mario. I suoi «potenti» alleati sono stati Edoardo e Angela, professionisti sanitari della Fondazione Maddalena Grassi, che prendendosi cura di Mario a casa sua, giorno dopo giorno, sono stati «indispensabili, la nostra sicurezza, un faro nella notte della disperazione».

alternativa-eutanasiaAi giornali piace dedicare pagine e pagine a chi in momenti di estrema fragilità e difficoltà chiede di morire. Meno a chi, nelle stesse condizioni, vuole continuare a vivere. E in maniera dignitosa. A tutti si rivolge la Maddalena Grassi, fondazione laica di diritto privato senza scopo di lucro, nata nel 1991 per affermare che è possibile «vivere la malattia con gusto» e arrivata ad assistere a domicilio nel 2016 oltre 1.800 malati, tra cui 120 bambini colpiti da gravi o gravissime malformazioni. Ogni giorno, un esercito di 250 tra infermieri, fisioterapisti, logopedisti, palliativisti, riabilitatori, tecnici della psicomotricità e ausiliari si occupa a Milano e provincia di pazienti, spesso in condizioni gravi, affetti da malattie degenerative, neurologiche, infettive, disabilità croniche, malati oncologici e di Aids.

Angelo Mainini lavora qui da 19 anni. Oggi è direttore sanitario e come fisiatra ha una responsabilità diretta nella gestione dell’assistenza domiciliare. Tra i suoi pazienti c’era anche Fabiano Antoniani. A dj Fabo aveva scritto il piano di riabilitazione. «Ci sono patologie, quelle neurodegenerative, o disabilità causate da gravissimi incidenti come quello accaduto a Fabiano, per cui non c’è una soluzione in termini di guarigione», spiega a Tempi. «In questi casi il nostro compito è far sì che la qualità della vita sia più alta possibile, eliminare il dolore fisico, togliere le complicazioni perché la quotidianità sia migliore». Una delle cose più importanti, ad esempio, è permettere la comunicazione: «Ci prendiamo cura di tante persone che da anni vivono immobilizzate in un letto, che magari riescono a muovere solamente gli occhi, ma che grazie a strumenti tecnologici hanno la possibilità di comunicare non solo con le persone vicine a loro, ma anche di chattare con chi è lontano. In questo modo escono dalle mura della loro casa e dalla gabbia del loro letto».

Come nasce il desiderio di morire
Ogni giorno i professionisti della Maddalena Grassi entrano in oltre 700 case di malati. Lo fanno «in punta di piedi», con la consapevolezza di «essere ospiti di una famiglia» e anche se c’è da cambiare solo un catetere sanno che la prestazione sanitaria non è tutto. «Se un infermiere arriva in casa, non guarda in faccia il paziente, non saluta, magari non si toglie neanche il casco se è in motorino, in cinque minuti fa la medicazione e se ne va. Beh, questa non è assistenza», chiarisce a Tempi Valeria Borsani, un passato da infermiera alla fondazione e oggi coordinatrice dei pazienti adulti. «La prestazione medica è solo il 30 per cento del lavoro, noi puntiamo a prenderci carico della persona a 360 gradi. Bisogna ascoltare il paziente, dialogare con le famiglie, offrire un aiuto che è formato da una rete di professionisti e prendere le decisioni insieme».

È sul campo che ci si accorge dei mille bisogni, non solo medici, di chi vorrebbe andare avanti a vivere e fa sempre più fatica. Casi di genitori gravemente malati accuditi dall’unico figlio 40enne, che per assisterli a casa è stato costretto ad abbandonare il lavoro «ed ora è depresso, perché non esce mai ed è disoccupato». Altri in cui i figli vivono solo grazie alla pensione di invalidità dei genitori e non possono permettersi un aiuto, per quanto necessario. «La realtà è che qui si parla solo di chi vuole morire ma ci sono migliaia di persone che vorrebbero vivere in modo dignitoso e non ce la fanno», racconta Maurizio Marzegalli, cardiologo, 42 anni di esperienza in ospedale e in terapia intensiva, tra i fondatori della Maddalena Grassi. «E magari qualcuno per la mancanza di aiuti da parte dello Stato comincia anche a sentirsi di peso alla famiglia e quel desiderio di morire gli nasce. Si discute tanto di testamento biologico ma noi stiamo ancora aspettando leggi specifiche per l’assistenza e le cure palliative pediatriche».

Il giovane atleta e il vecchio prete
La legge sulle Dat (Disposizioni anticipate di trattamento), che permetterebbe a un maggiorenne di stabilire in anticipo i trattamenti a cui vorrebbe essere sottoposto in caso di malattia, arriverà in aula il 13 marzo ma presenta «molte criticità». «Noi lo vediamo con i nostri pazienti», racconta il fisiatra Mainini. «La stragrande maggioranza di loro, malati cronici neurodegenerativi, all’inizio ha un’idea, poi però con il progredire della malattia cambia. Se si chiede a una persona in salute cosa vorrebbe fare se diventasse tetraplegica, la risposta è scontata. Ma nella realtà avviene un’altra cosa. Persone che dicono: “Il tubo della peg non me lo metterò mai”, quando arriva il momento in cui non riescono più a deglutire, lo richiedono. Perché magari c’è un nipote che deve nascere o un figlio che deve sposarsi. Con il tempo si trovano nuove motivazioni per cui vivere, più profonde, più radicali. In tanti poi dicono: “La tracheostomia non la farò mai”. Ma quando rischiano di soffocare la accettano, perché anche se una persona è paralizzata, con l’aiuto di farmaci adeguati che tolgano il dolore, se è voluta bene scopre che vale ancora la pena vivere».

Così c’è il giovane atleta, abituato a una vita avventurosa, quasi immobilizzato a letto per una gravissima patologia, che ha scoperto che adora scrivere. «Ora ha già pubblicato due libri e sta scrivendo il terzo. Inoltre, stanno uscendo delle cure sperimentali e presto ne comincerà una», continua Mainini. «L’altro giorno mi ha detto: “Ho trovato dei motivi per cui voglio ancora vivere. Non avrei mai pensato che fosse possibile”». Ma c’è anche l’anziano sacerdote malato di Sla, che mille volte aveva rifiutato l’ipotesi di essere tracheostomizzato, e che dopo un approfondito dialogo con i medici ha cambiato idea. «Vive in mezzo a mille problemi, ma oggi va ancora in chiesa a confessare i fedeli». Il cardiologo in pensione Marzegalli se lo spiega così: «Le capacità motorie diminuiscono o scompaiono del tutto, ma l’essenza dell’uomo rimane intatta. L’esigenza di essere voluto bene e accettato con i propri limiti è una forza dirompente. I nostri operatori sanitari cercano di guardare così i pazienti. Io vorrei che ci si battesse anche per queste persone, non solo per la morte».

Ma, come si diceva, queste sono storie che non hanno un lieto fine e l’esito delle cure non è la vita “ad ogni costo”, che rischia di sfociare nell’accanimento terapeutico. Catia Tognoni, dopo undici anni passati a fianco dei malati cronici di Aids, segue in fondazione da dieci anni l’assistenza a bambini gravissimi, che necessitano di cure 24 ore su 24, disabili con patologie rare o danni neonatali che sfociano in paralisi cerebrali. «A volte siamo stati chiamati in causa per accompagnarli nella fase terminale della loro vita, con terapie adeguate e proporzionate, insieme alla famiglia, con un enorme coinvolgimento affettivo», dice a Tempi.

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Davanti a un falso bivio
In questi frangenti non esistono regole e volerle fissare a tutti i costi porta solo danni: «Si può fare solo ciò che è proporzionato al caso singolo e che ha una qualche speranza di efficacia», spiega Mainini. «Al centro c’è sempre il bene della persona. Noi curiamo pazienti oncologici e terminali, si possono anche interrompere idratazione e alimentazione se sono dannose. Ovviamente sono casi diversi dai disabili gravi, ai quali l’alimentazione permette di continuare a vivere. Ma per i terminali, con una prognosi di quattro o cinque giorni, esiste anche la sedazione terminale che mette nelle condizioni di lasciare la vita in pace senza soffrire». Ma in questi casi «ai familiari serve un équipe medica con cui confrontarsi, che li aiuti a capire i dati di realtà, sempre diversi, e che li accompagni a casa negli ultimi giorni. Approvare una legge che dica: si fa per tutti così o non si fa, non ha senso, è un falso, è al di fuori della realtà».

La strumentalizzazione mediatica di casi come quello di Fabiano Antoniani, definita da queste parti una «violenza nei confronti di tanti disabili gravi che lottano per vivere», tende a porre i pazienti davanti a un falso bivio: morire o tornare a vivere come prima. Il lavoro della Maddalena Grassi è mostrare attraverso la cura che c’è una speranza: «È possibile accettarsi e andare avanti trovando insieme il senso della nuova condizione che si è chiamati a vivere. È difficile ma assistere bene vuol dire fare intravedere che questa terza strada esiste».

@LeoneGrotti

Foto della Fondazione Maddalena Grassi

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