Troppe eccezioni inaccettabili accettate senza troppe eccezioni

Di Alfredo Mantovano
14 Gennaio 2021
Servizi segreti in mano al premier, Csm demolito da scandali, Recovery Plan sfilato ai ministeri. Non è ammissibile che si lasci correre tutto in nome della lotta al Covid
Giuseppe Conte nel suo ufficio a Palazzo Chigi

Articolo tratto dal numero di gennaio 2021 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Da circa un anno con decreti legge, atti amministrativi come i Dpcm, atti di urgenza di singoli ministeri o Regioni, sono state ristrette alcune nostre libertà fondamentali e sono stati bloccati o fortemente ridotti nella loro funzionalità settori cruciali come la scuola, la sanità, la giustizia. Si è tollerato senza particolari resistenze non già uno stato di emergenza ma – per come è stato correttamente qualificato da più d’un giurista – uno “stato di eccezione”, una zona intermedia tra il giuridico e l’extragiuridico, tra la legge e l’esercizio della forza.

In un quadro così confuso, rischia di perdersi la distinzione fra quel che è stato ed è accettato perché esito dello stato di eccezione, e quel che con la situazione eccezionale non ha nulla a che vedere, e però non viene colto nella sua portata, poiché si perde nel calderone generale.

Primo esempio. Nel 2007 una legge approvata da tutti i gruppi politici (la n. 124) ha riformato i servizi di informazione e sicurezza. L’articolo 3 124/2007 stabilisce che «il presidente del Consiglio, ove lo ritenga opportuno, può delegare le funzioni che non sono ad esso attribuite in via esclusiva soltanto ad un ministro senza portafoglio o ad un sottosegretario», per questo denominati «autorità delegata». I compiti dell’autorità delegata sono impegnativi: non è un caso se, con rare e giustificate eccezioni, i presidenti del Consiglio precedenti l’attuale non li abbiano trattenuti per sé, ma li abbiano invece delegati. Da oltre due anni e mezzo, cioè dal primo esecutivo Conte, la responsabilità politica per i servizi è rimasta in capo al primo ministro.

L’intero sistema a rischio

Delle due l’una: o quest’ultimo segue il settore in modo così assorbente da trascurare l’enorme complesso di attività che su di lui incombe quotidianamente; oppure il solo fatto di star dietro alle mille emergenze di ogni giorno gli impedisce di interessarsene come sarebbe necessario. La disastrosa vicenda dei pescherecci italiani sequestrati da libici, inclusa la legittimazione conferita a chi ha ordinato il loro sequestro, ultima di una serie di figuracce, farebbe propendere per la seconda ipotesi.

Al momento della “verifica” la delega ai servizi è diventata una delle tante voci del contenzioso politico, riducendosi di fatto a una poltrona rivendicata dai partiti diversi dal M5s. È sfuggito il punto centrale: l’equilibrio di un sistema che può reggere se gli apparati tecnici e il vertice istituzionale interloquiscono continuativamente, in modo leale e affidabile, essendo pronti in qualsiasi momento a renderne conto nel Parlamento, con le garanzie di riservatezza che offre il Copasir.

Secondo esempio. Il Csm, nella sua attuale composizione, è stato eletto da poco più di due anni: la componente togata è di 16 unità, cui si aggiungono il presidente e il procuratore generale della Cassazione, che vi siedono di diritto. A seguito del “caso Palamara”, 7 di costoro sono stati costretti alle dimissioni, mentre un ottavo (Davigo) è stato “dimissionato” per aver raggiunto l’età pensionabile: 8 su 18 sono tanti.

Quale legittimazione avrebbe un Parlamento in cui in appena due anni per ragioni legate a scandali, facendo le proporzioni coi dimissionari del Csm, fossero costretti a lasciare l’incarico 280 deputati e 240 senatori? Si andrebbe avanti a scorrimenti ed elezioni suppletive, o si percorrerebbe la strada maestra dello scioglimento delle Camere? È un problema, di enorme rilievo istituzionale, che nessuno si pone, neanche in chiave di discussione politica.

Poltrone e sostanza

Terzo esempio. Per decidere il cosiddetto Recovery Plan, cioè la destinazione delle risorse finanziarie messe a disposizione dall’Unione Europea per la ripresa post pandemia, il presidente del Consiglio aveva deciso l’istituzione dell’ennesima commissione di tecnici. Questa vicenda, come la prima, è diventata occasione di scontro politico. Ma pone un nodo importante: a che servono i ministeri? Non sono competenti? Non sono affidabili? La pandemia fornisce l’occasione per la loro radicale riforma. I ministri non riescono a far lavorare insieme i dicasteri che conducono? E allora la riforma dovrebbe interessare il personale di governo.

Su ciascuno dei tre fronti – ma gli esempi si potrebbero moltiplicare – la sola scelta non ammissibile è lasciar correre. Il rispetto per le istituzioni si impone anzitutto a chi le rappresenta. Non è un optional: il prezzo del loro mancato rispetto non sempre è recuperabile. Non si riduce ad affermazioni contenute in un discorso più o meno solenne. Non è questione di una poltrona in più o in meno. Interessa la vita della nazione, e si proietta oltre il coronavirus.

Foto Ansa

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