“Stazione centrale”, il capolavoro di uno strano regista egiziano che nel 1958 sembrava già vivere il nostro presente
Una scena del film Stazione centrale di Yusuf Shahin
Nella stazione della città i treni viaggiano veloci. Li chiamano “i draghi di ferro”, per via di quel fumo denso che sembra avvolgerli e perché, come delle fiere selvagge, tagliano con i loro musi di ferro la terra e il deserto. Nella stazione, di ferro pure quella, c’è un groviglio di persone, valigie, persino abitazioni. Uomini in doppiopetto che corrono al lavoro, donne bellissime, occidentali, africane, dai tratti esotici e dai lineamenti sfuggenti. Ci sono le carrozze e le sale d’aspetto di prima classe e, in fondo, nascoste vicino al deposito dei treni, le favelas dei disperati, tuguri di cartone, con il filo spinato a chiudere mozziconi di porte.
È lo scenario, ricchissimo di dettagli e poesia, di un film splendido e terribile che racconta una storia piena di contraddizioni, tutta ambientata all’interno di una stazione in una città lontana. Una stazione che brulica di gente che lavora e altra che tira a campare. Mondi opposti e lontani, che fanno a pugni. Modernità e antico che ...