
Tre ragioni per demitizzare il Manifesto di Altiero Spinelli

Altiero Spinelli fu un grande visionario italiano che merita rispetto al di là degli steccati politici. Consumato dalla passione federalista europea sin dagli anni della guerra e del confino, egli diede contributi importanti all’integrazione sovranazionale come Commissario e parlamentare europeo, stilando anche, negli anni Ottanta, un progetto di unione federale che anticipò e ispirò molti concreti sviluppi dei decenni successivi.
Le sue riflessioni sui limiti dell’integrazione funzionalista e intergovernativa e sulla necessità di un salto federale restano ancora oggi profonde e istruttive. Tuttavia, la mitologia posticcia che lo circonda in importanti cerchie europeiste (soprattutto di matrice progressista) mi è sempre parsa eccessiva e fuorviante, per almeno tre ragioni.
Innanzitutto, storicamente l’europeismo del Manifesto di Ventotene fu molto meno pionieristico di quanto si tende a pensare. Lungi dal rappresentare il primo visionario progetto di unificazione europea, quando venne composto nel 1941 esso poteva attingere (e attinse) a quasi due decenni di proposte e riflessioni dettagliate sulle prospettive di un’unione sovranazionale.
Il misconosciuto pioniere dell’unificazione europea non fu Spinelli, ma il conte austro-ceco Richard von Coudenhove-Kalergi, autore già nel lontano 1923 di Paneuropa, una (allora sì) rivoluzionaria proposta di pacificazione e unificazione europea. Il movimento paneuropeo, da lui fondato negli anni successivi, ebbe notevole successo e raccolse il meglio della cultura e della scienza europea tra le due guerre, animando le migliori speranze di lasciarsi alle spalle i devastanti nazionalismi del Vecchio Continente. Questa qualifica di grande precursore dell’unificazione europea venne in qualche modo riconosciuta a Coudenhove nel 1950, quando divenne il primo vincitore del premio Carlo Magno. Vale anche la pena di menzionare i grandi pensatori liberali dell’unità europea tra le due guerre, da Lord Lothian e Lionel Robbins a Friedrich von Hayek, senza scordare il nostro Luigi Einaudi, alcuni dei quali furono tra i diretti ispiratori di Spinelli.
Presunta ortodossia europea
In secondo luogo, oltre che storicamente fuorviante, la mitologia spinelliana mi pare anche funzionale a conferire una sorta di primogenitura (se non di esclusiva) all’europeismo della sinistra italiana ed europea, mettendo in ombra la forte opposizione all’integrazione continentale che caratterizzò per decenni parti importanti di essa (nel caso italiano, praticamente fino alla svolta “eurocomunista” degli anni Settanta, quando l’eretico conclamato Spinelli venne finalmente riaccolto, seppure come indipendente). Le tradizioni più “moderate” di europeismo risultano in tal modo abilmente ridimensionate, se non spinte nel dimenticatoio.
In verità, non soltanto l’europeismo social-comunista fu ben più tardivo di quello liberale, popolare e persino conservatore, ma le loro visioni dell’unità europea furono (e restano) profondamente diverse. Senza dubbio lo Spinelli della maturità abbandonò gli aspetti più illiberali del suo manifesto, fustigati nei giorni scorsi dal nostro presidente del Consiglio, come il sorprendente riferimento dei confinati di Ventotene a una «dittatura del partito rivoluzionario» per fondare il nuovo stato federale europeo.
Cionondimeno, l’europeismo progressista si caratterizza ancor oggi per una visione europea culturalmente sradicata, istituzionalmente centralistica ed economicamente interventista di cui il federalismo spinelliano costituisce senza dubbio una delle fonti. Nulla di più distante, in effetti, dal confederalismo rispettoso delle sovranità nazionali di gollisti e conservatori, dal federalismo cristiano, anti-centralistico e sussidiario dei popolari, come da quello limitato, decentralizzato e concorrenziale dei liberali classici.
Demitizzare Spinelli, quindi, non soltanto aiuta a ristabilire un senso di profondità e complessità storica, ma può anche conferire legittimità a concezioni dell’integrazione continentale alternative a quelle liberal-progressiste e socialiste, che a volte sembrano ergersi a custodi incontentabili di una presunta ortodossia europea. Del resto, democratizzare il dibattito sul futuro dell’Europa, un obiettivo che certo tutti condividiamo, certamente richiede l’articolazione di concezioni alternative legate a diverse tradizioni politiche che competano, negozino e cooperino tra loro sulla base della loro forza elettorale relativa.

Un esperimento sui generis
Vengo ora al terzo e ultimo motivo per cui la mitologia spinelliana mi sembra poco utile. Additando l’obiettivo di uno stato federale europeo relativamente centralizzato, pur senza volerlo l’europeismo di marca spinelliana agita uno spauracchio contro il quale tutte le forze nazionaliste possono convenientemente scagliarsi in difesa delle vecchie sovranità nazionali. Ma questo spauracchio federalista non corrisponde quasi in nulla alla logica istituzionale dell’Unione europea attuale, come lo stesso Spinelli non mancherebbe certamente di osservare sfiduciato se fosse ancora tra noi.
Lungi dall’essere uno stato federale centralizzato, negli ultimi quindici anni di crisi la nostra Unione si è di fatto evoluta verso un esperimento sui generis di governance multilivello in cui molte competenze chiave non vengono semplicemente sottratte al livello nazionale e trasferite a quello europeo, ma co-gestite dai decisori europei e nazionali, col Consiglio europeo dei capi di stato e di governo assurto al ruolo di organo supremo. Così è accaduto in materia di economia e politica fiscale e in materia di politiche per la ripresa post-Covid. E così sta cominciando ad accadere in materia di difesa. In tutti questi ambiti cruciali per la tradizionale concezione della sovranità, gli stati nazionali non vengono esautorati, ma affiancati, coordinati e per certi versi rafforzati dal livello europeo, dove si negoziano obiettivi condivisi e si stanziano risorse comuni erogate agli stati più deboli perché ammodernino le loro economie (il cosiddetto recovery plan) o i loro eserciti (il proposto piano ReArm EU), mettendosi al passo coi paesi più forti.
Il bivio
Lontana anni luce dalla federazione spinelliana, questa unione è però già ben più di una mera confederazione di stati sovrani. Spetta ora a noi decidere se l’embrionale nuova governance multilivello che la caratterizza sempre più si evolverà nel senso di un’unione autenticamente sussidiaria o di un’unione centralistica.
Sarà sussidiaria se saprà affidare al livello di governo superiore lo scopo precipuo di “aiutare” quelli inferiori a realizzare pienamente la propria autonomia e potenzialità (“subsidium” significa ovviamente proprio aiuto, sostegno).
Sarà invece centralistica se il livello superiore si avvarrà dei crescenti strumenti fiscali e regolatori a sua disposizione per addomesticare quelli inferiore e ridurli gradualmente ad uno stato di docile conformità.
La posta in gioco dei prossimi anni mi pare questa, più che il dibattito astratto tra il federalismo spinelliano, che non è mai esistito, e il confederalismo meloniano, che probabilmente non può più esistere.
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