Tra arte e popolo

Di Cwalinski Vladek
01 Luglio 2004
“La Grande Decorazione” di Sironi, una delle risposte intellettualmente più avanzate al problema di conciliare esigenza rappresentativa e adesione al patrimonio di una civiltà. In mostra a Milano

Dopo la sbornia delle avanguardie, che in poco più di un decennio avevano messo a soqquadro l’intero mondo dell’arte, e dopo l’interruzione della Prima Guerra mondiale con i maggiori artisti europei, – da Franz Marc a August Macke, da Georges Braque ai futuristi italiani, – impegnati al fronte, ovunque nel mondo, negli anni Venti e Trenta, una domanda assilla pittori, scultori e architetti, siano essi quelli legati al Bauhaus o i costruttivisti russi, i muralisti messicani o Fernand Léger: è il quesito su quale sia il ruolo dell’arte nel mondo moderno. Tutti avvertono come limitata e di breve respiro l’esclusiva coincidenza della pratica artistica alla sola pittura da cavalletto. Una scelta “borghese” che inquieta la maggioranza di essi, che cercano di trovare nuove strade nel rapporto col pubblico. Tra questi ce n’è uno, approdato al futurismo milanese in ritardo (nel 1915) e caratterizzato da un temperamento pittorico spiccatamente costruttivo (e per questo motivo opposto a quello dei futuristi) che affondava le proprie radici nel disegno, con uno spiccato interesse per l’arte babilonese, egiziana, greca e romana. Si tratta di Mario Sironi (Sassari, 1885 – Milano, 1961), senza ombra di dubbio uno dei più grandi artisti italiani (e mondiali) del XX secolo. A tale quesito, imposto dai tempi, Sironi tentò una risposta originale, unica, sostenendo il primato dell’opera d’arte realizzata su commissione pubblica rispetto alla pittura da cavalletto. La sua idea di pittura, scultura, mosaici e vetrate come decorazione di grandi superfici murarie fu una delle risposte intellettualmente più avanzate a un problema, quello del rapporto tra arte e popolo, che restava in sospeso per quanto riguarda l’Italia almeno dai tempi di Tiepolo. Occorre sottolineare che Sironi non voleva realizzare opere a emulazione degli antichi, ma arte moderna frutto della sua personale visione. La forma – a cui tutto il problema dell’arte è legato – doveva essere nuova, nascere dalla modenità. Il guaio, per lui, fu che la sua arte era anche uno dei principali veicoli di rappresentazione e propaganda del fascismo. Il diktat culturale imposto nel Dopoguerra da Palmiro Togliatti e soci fece cadere perciò su di essa l’inevitabile ombra di una damnatio memoriae. E non solo. Sironi venne anche attaccato dagli stessi fascisti, come dal gruppo del giornale Il regime fascista e dal “ras di Cremona” Roberto Farinacci, che volevano un controllo statale e autoritario sull’arte a emulare quanto stava accadendo in Germania con il nazismo (dove veniva promulgato un realismo accademico privo di anima e che sapeva di morte) e per questo condussero una violenta campagna di insulti contro di lui e il movimento artistico di Novecento coadiuvato da Margherita Sarfatti. Scrisse Sironi nella Rivista Illustrata del Popolo d’Italia, con la quale collaborava, nell’agosto del 1935: «Affreschi, decorazioni, bassorilievi, statue, una grandiosa falange di opere rimane in Italia nella quiete serena delle absidi, degli altari, delle cappelle. […] Si pensi dunque a […] gli immensi affreschi d’Arezzo, della Cappella Brancacci, della Cappella degli Scrovegni, del camposanto di Pisa, del convento di San Marco, del battistero di Castiglione Olona, gli affreschi di Santa Croce, delle cappelle di Santa Maria Novella col chiostro di Paolo Uccello e il Cappellone degli Spagnoli, i Signorelli del Duomo di Orvieto, le enormi pareti della Cappella Sistina, le decorazioni della Cappella Paolina, della cappella di Benozzo a Palazzo Riccardi, il Cenacolo, gli affreschi di San Clemente, il Giotto senza fine delle tre chiese di Assisi, gli affreschi di Siena, le cupole di Parma, le volte di Tiepolo, il Mantegna del castello di Mantova, le porte di San Pietro, il Tempio Malatestiano seminato di meraviglie, la cappella dei Medici a San Lorenzo, i Tintoretto interminabili del Palazzo Ducale di Venezia, i prodigi del Vaticano con le stanze, della Farnesina con le sale, il portale di San Petronio, le porte del battistero di Firenze, i pulpiti di Siena, di Pistoia, di Pisa, l’arca di Bologna, i Donatello, i Verrocchio di Padova, di Venezia, di Firenze, di Siena e tutta l’arte inamovibile disseminata in chiese e campanili, a Firenze, a Roma, a Modena, a Venezia, e in cento città italiane». Questa appassionata elencazione – che dimostra tra l’altro una immensa e profondissima conoscenza della tradizione artistica italiana – rende perfettamente l’idea di ciò che per Sironi era grande decorazione. «La pittura murale (come il bassorilievo), dall’affresco all’arazzo, dal pavimento alla vetrata, al mosaico, è “decorazione”, così come sono decorazioni i catini immensi di Ravenna, le Stanze di Raffaello, le sculture dei portali gotici, dei templi egizi, di Fidia e delle metope di Selinunte» ebbe a scrivere. Il suo pensiero era dunque la ricerca dell’arte totale, nella quale l’architettura, «madre di tutte le arti» e la decorazione sarebbero state di nuovo legate come nel glorioso passato dei cantieri delle grandi cattedrali medievali romaniche e gotiche. Insomma una nostalgia infinita per l’espressione di un popolo, quello cristiano che «si innesta su una storia discendente quale quella dell’impero bizantino, estrema risorgenza della civiltà romana in dissoluzione» scrisse. Il guaio era che il popolo c’era, sì, ma in crisi, o, per meglio dire, era già in declino, almeno per quanto riguarda la creatività. Si era incrinato qualcosa. Da qui nasce l’impresa titanica di questo Michelangelo del XX secolo di colmare una lacuna storica profonda almeno due secoli. «Nello stato fascista l’arte viene ad avere una funzione sociale: una funzione educatrice. Essa deve tradurre l’etica del nostro tempo. Deve dare unità di stile e grandezza di linee al vivere comune. L’arte così tornerà a essere quello che fu nei suoi periodi più alti e in seno alle più alte civiltà: un perfetto strumento di governo spirituale» si legge nel Manifesto della pittura murale del 1933 di cui Sironi fu il principale ispiratore. Ben inteso a Sironi il potere legato alle grandi commissioni, che pur aveva, interessava poco. La sua era una visione ideale, perseguita ad oltranza, da uomo rinascimentale del XX secolo che non disdegnò affatto di “sporcarsi” le mani e implicarsi totalmente con le contraddizioni della modernità. Ora, a più di sessant’anni di distanza, la mostra intitolata “Sironi. La Grande Decorazione” indaga sulle opere monumentali – affreschi, mosaici, sculture, vetrate, allestimenti – realizzate dall’artista tra la fine degli anni Venti e i primi anni Quaranta. Tra queste commissioni pubbliche occorre citare, la vetrata “La carta del Lavoro” (Ministero dell’Industria, Roma), la Mostra della Rivoluzione Fascista del 1932, tenutasi al Palazzo delle Esposizioni di Roma, i numerosi interventi per la V Triennale di Milano tra cui il murale “Il lavoro” nel Salone d’Onore, i teleri del Palazzo delle Poste di Bergamo L’Architettura e L’Agricoltura, l’affresco L’Italia tra le Arti e le Scienze nell’Aula Magna della città Universitaria di Roma, gli affreschi della Casa Madre dei Mutilati a Roma e Venezia l’Italia e gli studi dell’Università di Venezia a Ca’ Foscari, il mosaico del Palazzo di Giustizia di Milano, la vetrata “L’Annunciazione” dell’Ospedale Maggiore di Niguarda a Milano, le opere per il Palazzo dell’informazione di Milano e all’interno il mosaico “L’Italia corporativa”. Per queste imprese monumentali Sironi dipinse un vasto numero di cartoni a tempera e una sterminata quantità di studi, bozzetti e schizzi di piccolo formato. Dei quali sono stati selezionati trentotto di grandi dimensioni oltre a centocinquanta disegni e tempere più piccoli che costituiscono il nucleo dell’esposizione. L’impressione che si riceve visitando le sale della Triennale è quella di trovarsi di fronte a un artista titanico, il quale sia nelle opere di grandi dimensioni che nei piccoli schizzi a matita rivela una monumentalità innata. Si osservino ad esempio i cartoni per la vetrata “La carta del Lavoro” o il cartone per l’affresco “La geografia – L’impero”: ciò che appare è una visione epica della modernità dove Sironi rivela una concezione dell’uomo addirittura eroica. è uno dei rarissimi artisti mondiali del XX secolo ad avere un’idea sintetica dell’uomo. Questo si vede soprattutto dal suo modo di disegnare il corpo, dal concepirne la forma, la struttura in rapporto allo spazio. Questa passione per il disegno ha in lui radici antiche, fin dal tempo della “Scuola libera del nudo di Via Ripetta” – a Roma nel 1905 – quando «copiava più di cinquanta teste greche al giorno», ricorda l’amico Gino Severini. Una grande solennità e silenzio – per il Mistero che sta per farsi carne – suscita invece il cartone per la vetrata “L’Annunciazione”, che si trova ormai dimenticata nella chiesa del Nuovo Ospedale Maggiore di Niguarda, mentre è una delle più straordinarie (e rarissime) opere d’arte moderne dedicate a un soggetto simile, così centrale. Non meno stupore desta la sua pittura, tutta giocata su poche tinte essenziali. Si veda ad esempio “Adamo ed Eva” o “L’agricoltore” – cartoni per il mosaico “L’Italia corporativa” – con queste figure d’un imponenza statuaria degna di un Masaccio davanti alle quali la pittura di un Georg Baselitz – che pur è un grande – impallidisce, non regge il confronto. Una significativa mostra su un aspetto dimenticato di un grande artista dunque, che, a proposito della sua idea già intuiva i sentori di un fallimento quando scrisse: «Quest’opera come altre che ho fatto è frutto di una volontà smisurata. Disgraziatamente le condizioni intorno sono insufficienti e inadeguate e ostili. Donde questa mia lotta sproporzionata e questa battaglia paurosa di un artista necessariamente incompleto».

Sironi. La grande decorazione

Triennale di Milano,
Viale Alemagna 6
tel. 02-724341,
Orario: 10,30-20,30,
chiuso il lunedì

Fino al 18 luglio 2004

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