Toni Capuozzo. Il pudore dell’inviato speciale

Di Rodolfo Casadei
19 Ottobre 2006
Dal Sudamerica al Medio Oriente per imparare che uno strumento potente come la telecamera deve essere capace anche di silenzi

L’Ilaria Alpi, il Saint Vincent, l’Ernest Hemingway, il Flaiano, il Terrazza Martini, il Max David, il Sodalitas. la lista dei premi giornalistici tributati a Toni Capuozzo incuterebbe rispetto e timore reverenziale anche al più cinico dei cronisti di nera, tanto più se abbinata a quella delle testate e delle trasmissioni in cui ha lavorato e lavora. Ma non lo mette al riparo da insulti di blogger, insinuazioni di militanti dell’ultrasinistra, motteggi e dileggi di personaggi abbastanza noti.
Il fatto è che lui ha sempre diviso e fatto scandalo, sin da quando, sulle pagine di Lotta Continua poi divenuta Lc, sfrondava gli allori del sandinismo in Nicaragua e della Cuba castrista provocando le incazzate proteste dei lettori. Come le grandi qualità professionali sono state riconosciute un po’ tardivamente (i premi importanti sono cominciati a piovere su di lui solo passati i 50 anni), così la sua umanità, onestà, umiltà, generosità e gentilezza riceveranno l’unanime giusto omaggio quando sarà troppo tardi.
Toni Capuozzo, come è nata la passione dell’inviato speciale?
Per caso. Si era alla fine degli anni Settanta, avevo 30 anni e mi sono trovato in Nicaragua alla vigilia della rivoluzione sandinista. Vedevo i rastrellamenti militari, parlavo coi reduci dalle prigioni. E raccoglievo tutto in un quadernino. Ne sono nati dei pezzi che sono stati pubblicati solo dopo l’ascesa al potere del Fronte sandinista sul giornale Lotta Continua, anche se da qualche anno non ero più un militante del movimento.
Che ci faceva in Nicaragua tutto solo?
Ero partito dagli Usa e stavo viaggiando in corriera verso il Sudamerica lungo la carretera panamericana. Il Nicaragua era una delle tappe più emozionanti per il suo clima pre-rivoluzionario, anche se molti lo saltavano per paura.
Ho capito: anche lei aveva il mito della rivoluzione in Sudamerica.
Avevo una passione sconfinata per l’America latina, ma la storia è più sfaccettata. Dopo che mi sono laureato in sociologia per un po’ ho insegnato all’Enaip. Poi un giorno mi son detto che non volevo fare per tutta la vita l’insegnante di serie D, ma non sapevo cosa volevo. Ho mollato tutto senza avere nulla sotto mano. Per chiarirmi le idee mi sono detto: «Parto, faccio un viaggio, provo a imbarcarmi».
A «imbarcarmi»?
Sì, e non era una romanticheria: mia nonna è stata cameriera sui transatlantici, un cugino lavorava come marconista sulle navi. La marineria è una vocazione di famiglia. Però non avevo il libretto di navigazione, e così sono rimasto a terra. Ho provato a Genova, a Marsiglia, a Rotterdam: sempre senza successo.
Così è andato in America in altro modo. Cos’ha fatto dopo il Nicaragua?
Anziché proseguire il viaggio ho speso tutti i soldi che mi restavano per tornare subito in Italia in aereo. Avevo deciso che i miei articoli avrebbero raccontato il dramma del Nicaragua sulla grande stampa italiana. Andai a Roma alla sede di Repubblica e chiesi di essere ricevuto da Saverio Tutino.
Così, senza aver preso appuntamento?
Sì, e il bello è che mi ricevette senza problemi. Però non fu incoraggiante: «Scrivi bene», mi disse, «ma queste cose non sono adatte a un quotidiano. Prova col Manifesto». Ero talmente demoralizzato che tornai a Udine senza passare da quelli del Manifesto. I pezzi uscirono su Lotta Continua l’estate seguente, dopo che già avevo iniziato a collaborare con loro.
E così è diventato l’inviato speciale di Lotta Continua.
Non subito. Prima mi hanno mandato in Montenegro a raccontare un terremoto: sai, io ero friulano e nel ’76 c’era stato il famoso sisma; proprio allora avevamo sciolto la sezione di Udine di Lotta Continua per confluire nel Coordinamento delle tendopoli. Poi mi hanno ‘assunto’ alla redazione di Roma: lo stipendio era 5 mila lire al giorno, che ci venivano pagate quotidianamente. Quindi sono riuscito a farmi rispedire in America latina.
Di nuovo al cuore del processo rivoluzionario mondiale.
Al contrario, ho toccato con mano le miserie, spesso anche le atrocità, del sogno rivoluzionario, che non erano rese più nobili dalle miserie e atrocità delle dittature di destra. Raccontai la storia dei Miskitos maltrattati dai sandinisti, il primo grande esodo da Cuba di migliaia di persone rifugiate dentro all’ambasciata peruviana, sono andato sul luogo dove era stato ucciso Che Guevara raccontando poi una storia tutt’altro che eroica, dove non c’era più l’innamoramento per il guerrigliero da appendere come poster nella propria stanza, ma il racconto degli aspetti persino donchisciotteschi di quella spedizione. È entrata in crisi la mia visione ideologica del mondo. Enrico Deaglio, che allora era il direttore, era soddisfatto, ma i lettori inveivano.
Non voglio farle rievocare tutta la sua carriera. Mi dica, alla luce della sua esperienza, chi è stato il più grande fra gli inviati.
Egisto Corradi, anche se non l’ho conosciuto. L’ho sempre considerato un maestro, leggendolo a posteriori. Mi piace la sua secchezza che non pregiudica la qualità della scrittura. E il fatto di essere a-ideologico, di saper raccontare senza sentimentalismi i drammi della gente.
Oggi chi è uno grande?
Ettore Mo è una figura che mi piace molto e a cui sono molto affezionato. Però non ho letto queste paginate che scrive sui grandi fiumi. Mi piacerebbe vederlo all’opera in Iraq, nell’occhio del ciclone. Ma è in pensione, credo che quella di raccontare luoghi marginali sia una scelta obbligata. Mi piace – anche se non sono mai d’accordo con lui – Bernardo Valli. Mi piace che nonostante l’età continui ad andare sul posto, indomito: è un modello per i giovani giornalisti.
Chi è il più generoso fra gli inviati che ha conosciuto?
Carlo Rossella mi aiutò parecchio. Me lo ricordo durante la guerra delle Falklands. Lui era l’inviato di Panorama, e per farmi arrotondare mi faceva scrivere dei box per loro, mi invitava qualche volta a cena e mi metteva sulla nota spese del suo giornale.
Qual è il servizio di cui va più orgoglioso?
L’intervista a Borges durante la guerra delle Falklands. Nessuno riusciva a trovarlo. Era l’unico argentino che criticava pubblicamente la scelta del suo governo di occupare le isole. Io l’ho trovato.
E qual è invece quello che non avrebbe mai voluto realizzare?
Sono due. Il primo è il G8 a Genova. Penso di averlo raccontato bene, dal posto. Ma fu un’autentica ventata di follia. Le ventate di follia sono più innocue per te se avvengono a migliaia di chilometri da casa tua. Se avvengono sotto casa, se gli insulti e le urla sono nella tua lingua, ci rimani peggio.
Il padre di Carlo Giuliani ha insinuato che lei non fosse in piazza Alimonda per caso.
Ho avuto una polemica con lui. Gli ho detto che non ritenevo suo figlio un eroe e che ritenevo Placanica a sua volta una vittima. Ritengo che piazza Alimonda sia stata l’apice di alcune giornate che purtroppo erano annunciate nella logica di come si stavano preparando le cose. Era una guerra annunciata, ridicola se non ci fosse stato un morto. Credo che le responsabilità di quel giorno poggino, in misura che non mi interessa stabilire da giudice della storia o da magistrato, su chi organizzò l’ordine pubblico e sui sindacati che tennero fissa questa grande manifestazione no-
nostante i black bloc e altri avessero preannunciato le loro intenzioni violente.
L’altro servizio che non ricorda con piacere?
Una lezione amara è stata la vicenda della chiesa della Natività a Betlemme. Se rivivessi quella situazione mi comporterei diversamente. Per un senso di solidarietà e di rispetto per i frati che erano rimasti dentro parlai a bassa voce, non dissi delle cose che forse dovevo dire. Quella vicenda è passata alla storia come l’assedio della chiesa della Natività, e invece fu un’occupazione. È stata raccontata una storia di giovani armati che si rifugiano nella chiesa, invece era tutto organizzato per indurre l’esercito israeliano a colpire uno dei luoghi sacri della cristianità. Io allora non ebbi la forza di dirlo con chiarezza.
Ci sono molti imbroglioni nel mondo degli inviati?
Ce ne sono.
Di tutte le nazionalità?
Noi italiani ce la caviamo abbastanza. In generale l’inviato italiano è molto più sveglio degli anglosassoni nell’afferrare i termini politici della situazione. Ma ha un’etica molto più labile nella fabbrica del lavoro. Gli anglosassoni vanno sul posto, noi spesso abbiamo corrispondenze che sono scritte dalla camera dell’albergo.
Ha mai pagato i soldati perché sparassero mentre filmava?
No, mai. A volte la presenza della telecamera è benefica: magari le guardie non picchiano quel tale perché verrebbero riprese; altre volte peggiora la situazione: c’è qualcuno che si mette a sparare perché vede che c’è la telecamera.
Conosce qualcuno che ha taroccato un servizio? Come si fa?
Puoi manipolare l’audio. Puoi portare gli spari che hai in un punto della cassetta in un altro. Io comunque non ho la presunzione che la mia telecamera mostri la verità con la V maiuscola: è solo un punto di vista. Quel giorno sono in quel posto, avrei potuto essere in un altro, e questa è già una scelta, dunque opinabile. Quello che offre la mia telecamera è solo uno dei tanti tasselli della verità. Non ho mai taroccato un servizio. A volte non ho trasmesso immagini che pure avevo girato per rispetto verso i miei e altrui figli, che guardano la televisione a quell’ora, e per pietà nei confronti dei morti, iracheni, libanesi o israeliani che siano. A me non piacerebbe essere ripreso morto sul terreno con la bocca aperta. Anche se ormai viviamo in una società abituata ad applaudire le bare che escono dalla chiesa, bisognerebbe cercare di avere un po’ di pudore davanti ai corpi delle vittime.
Se ho capito bene, gli applausi ai funerali le danno molto fastidio.
Io non sono un uomo di fede, ma quando passa un funerale istintivamente mi faccio un segno di croce: è una forma di omaggio, di rispetto, di pietà. L’applauso significa che non abbiamo più un linguaggio per esprimere le cose che sentiamo. La telecamera, strumento potente, deve essere capace a volte di silenzi, di sospensione della sua invadenza. È il solo modo di non violare la dignità delle persone che vengono ritratte.
Quasi sono le qualità più importanti di un inviato speciale?
Anzitutto la salute e la resistenza fisica. Poi la curiosità. Quindi un’alchimia giusta fra coraggio e paura: devi averli entrambi perché sono entrambi necessari. La cosa perfetta è quando uno è deluso da ogni spiegazione ideologica ma non cessa di essere curioso di capire come va il mondo. Scusa il ritratto molto autobiografico, ma se uno ti fa un lungo discorso sulle ragioni dei palestinesi e non anche sui torti, e poi viene inviato in Cisgiordania o a Gaza, io credo che difficilmente racconterà bene le cose che smentiscono il suo modo di vedere preconfezionato!
Quanto pesano i pregiudizi politici sul prodotto che gli inviati oggi ci offrono?
Moltissimo, purtroppo. A lungo è prevalsa la convinzione che nel corredo del grande inviato ci dovesse essere un pensiero di sinistra, magari moderato, ma che quello fosse necessariamente il profilo del grande giornalista. Io non mi considero di destra e non mi considero più di sinistra. Sono esperienze che penso di aver superato, rifiuto la logica dell’appartenenza. Mi basta essere uomo e cittadino. E continuare a fare il giornalista.

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