
Tobin tax. L’Europa s’appresta a vararla, ma è un grande inganno
La Commissione europea vuole varare la Tobin tax, la tassazione sulle transazioni finanziarie. Il varo della Tobin tax dovrebbe avvenire mercoledì in concomitanza con il discorso sullo stato dell’Unione che il presidente José Barroso pronuncerà davanti al Parlamento. Essa sarà applicata a partire dal 2014 e, secondo quanto riferito dall’Ansa, «prevede l’introduzione di un sistema comune di tassazione delle transazioni finanziarie basata un’aliquota minima che i singoli Paesi potranno ritoccare su base nazionale. Le tassazioni dovrebbero essere due: una per le operazioni tradizionali e una per quelle sui prodotti più speculativi e sui derivati».
Ma non è tutto oro quel che luccica. L’Istituto Bruno Leoni ha di recente pubblicato uno studio di Emilio Rocca dal titolo “Le promesse e i pericoli della Tobin Tax” (lo trovate in allegato a questo articolo o sul sito dell’Istituto).
Qui ne riportiamo uno stralcio: «L’unico caso nella storia nel quale si è messa in atto una Tobin Tax ‘pura’ è quello svedese: il primo gennaio 1984 fu introdotta sul mercato finanziario nazionale una tassa dello 0,5% che si applicava a tutti gli acquisti di titoli azionari e stock options. L’imposta venne poi raddoppiata nel 1986 e venne allargata per comprendere anche i titoli obbligazionari. Comprensibilmente gli assets si svalutarono immediatamente per riflettere il valore attuale dei futuri pagamenti all’erario. Numerosi studi trovarono un aumento statisticamente significativo nella varianza giornaliera dei rendimenti durante il periodo in cui l’imposta è rimasta in vigore. Un aspetto importante che l’Italia e l’Europa dovrebbero considerare in un contesto di crisi dei debiti sovrani è l’aumento del costo del debito pubblico svedese. Questo aumento si verificò perché gli investitori richiesero dei rendimenti sempre più alti per detenere dei titoli sempre più tassati. Come effetto secondario, alla Tobin Tax svedese è stato imputato di avere limitato le espansioni societarie, l’occupazione e in generale la raccolta di capitali».
La Tobin tax è una vecchia idea di cui spesso si è parlato – in particolare nel 2001, durante il G8 di Genova; era un cavallo di battaglia dei no-global – e di cui anche Tempi si è spesso occupato. Essa si basa su un grande equivoco come spiegò sul numero 25/2001 di Tempi Rodolfo Casadei.
Scriveva Casadei: «Tanto per cominciare, il capitale che circola nelle transazioni è molto diverso dal capitale che si possiede stabilmente: un dollaro che cambia di mano mille volte nel corso di una giornata sarà contato come 1.000 dollari di transazioni finanziarie. Una tassa di un millesimo, allora, costituirebbe un’espropriazione totale della ricchezza introdotta nel sistema. L’effetto sarebbe quello di ridurre brutalmente la circolazione finanziaria e forse di interromperla completamente. L’economia reale ne risentirebbe tanto quanto quella finanziaria. Ma anche l’obiettivo di combattere la speculazione e stabilizzare i cambi è aleatorio. Supponiamo che io debba vendere i dollari che ho guadagnato con le esportazioni per pagare in euro i miei dipendenti. Se gli operatori esitano ad acquistarmeli perché la tassa li scoraggia dall’effettuare un acquisto seguito da una vendita (hanno bisogno anche loro di vendere subito i dollari), sarò costretto ad abbassare il prezzo a cui cedo i miei dollari, per accelerare una vendita di cui ho assolutamente bisogno. La fluttuazione dei cambi, in questo caso, risulterà accentuata anziché ridotta, e gli speculatori faranno festa. Questi difetti della “Tobin Tax” sono noti da anni. Perché allora gli antiG8 e alcuni governi la propongono, anziché limitarsi a chiedere maggiori stanziamenti per gli aiuti al Terzo mondo? Per cieco odio teologico nei confronti dell’economia finanziaria i primi, per mettere le mani su nuove imposte i secondi».
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