
Terrorismo via drone. Un allarme che dobbiamo prendere sul serio

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Il Casa, Comitato di analisi strategica antiterrorismo, dal 2 gennaio sta valutando un nuovo allarme terroristico: droni volanti, telecomandati a distanza, potrebbero essere impiegati dall’Isis per colpire obiettivi strategici o particolarmente simbolici in una grande città europea, come Roma. O forse per sganciare un contenitore pieno di iprite o di altri gas letali. La segnalazione è arrivata dal Mossad israeliano, e il Casa, l’organo che dal 2004 raccoglie e confronta tra loro esperti della Polizia, dei Carabinieri, della Guardia di finanza e dell’intelligence, la sta analizzando seriamente.
Del resto, l’allarme droni circola da oltre un anno: esattamente dal novembre 2015, quando i francesi scovarono un piano del genere nel computer di Salah Abdeslam, a capo del commando stragista del teatro Bataclan. Ora, però, l’allarme pare diventare concreto. Lo scorso novembre, in Iraq, è stato abbattuto un drone armato che era stato lanciato dalle milizie jihadiste contro i combattenti sciiti a Tal Afar, e questo ha dimostrato che l’Isis ha in mano la tecnologia per un attacco dall’aria.
In quello stesso mese a Ramadi, sempre in Iraq, i servizi britannici hanno scoperto un laboratorio per la costruzione di droni volanti. L’organizzazione inglese Conflict Armament Research, che da Londra analizza l’impiego di nuove armi, sostiene che quanto rinvenuto nel laboratorio di Ramadi «segnala che la ricerca dell’Isis è giunta a compimento».
A proposito di ipotesi
La paura degli esperti si giustifica con la facilità con la quale jihadisti infiltrati in Europa potrebbero acquistare un drone: basterebbe una spesa contenuta e perfettamente legale. Con piccole modifiche si può consentire all’apparecchio di trasportare esplosivo: e non servirebbero cariche potenti, ma sufficienti a un’azione dimostrativa di grande impatto. Che potrebbe poi essere amplificata via web: basterebbe una telecamera piazzata sul drone per farne uno spettacolare spot per l’Isis, da rilanciare online.
Anche se nell’estate scorsa il Pentagono ha chiesto al Congresso statunitense 20 milioni di dollari per un programma destinato a individuare e neutralizzare i droni in mano a gruppi estremisti, oggi l’allarme in Italia è ancora a livello di ipotesi. Ma va sempre ricordato quel che accadde nel nostro paese tra il giugno e il luglio 2001, immediatamente prima del G8 di Genova organizzato dal governo Berlusconi. Preannunciata da informative dei servizi segreti tedeschi, russi ed egiziani, sul tavolo dell’allora ministro dell’Interno, Claudio Scajola, arrivò un rapporto top secret del Sisde.
Vi si leggeva che un capo del terrorismo islamico in quel momento relativamente noto, «tale Usama bin Laden», progettava un attacco aereo contro i palazzi e contro la nave dove per qualche giorno avrebbero dormito e si sarebbero riuniti i capi di Stato e di governo, e in particolare George W. Bush. L’informativa ipotizzava esplicitamente l’impiego di velivoli farciti di tritolo e telecomandati a distanza, o forse pilotati da attentatori suicidi.
Scajola ordinò che fosse chiuso lo spazio aereo sopra Genova e che all’aeroporto fossero piazzate due batterie Spada, pronte a bloccare la minaccia con i missili terra-aria Aspide. Per quella scelta, il ministro fu a lungo sbeffeggiato dalle opposizioni di centrosinistra e deriso dai No global: «Scajola peggio del dottor Stranamore», scrisse qualcuno sui muri della città. E molti contestatori scandivano lo slogan: «Scajola, sulle tue batterie ci cagano i gabbiani». Poi l’11 settembre, nemmeno due mesi più tardi, arrivò l’attacco aereo di al Qaeda contro le Torri gemelle.
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