
Terre rare e gas: le armi di Pechino nella guerra dei dazi

tratto dall’Osservatore Romano – Dopo quella statunitense, è arrivata anche la “black list” cinese (in realtà a Pechino chiamata “white paper”), l’elenco delle aziende e degli operatori banditi dai rapporti commerciali con Pechino. Ne aveva dato preannuncio il ministro del Commercio Gao Feng, il quale nei giorni scorsi aveva citato appunto aziende o persone che non hanno rispettato le regole del mercato o che hanno “seriamente danneggiato i legittimi diritti e interessi delle aziende cinesi”. Già in precedenza il portavoce del ministro degli Affari esteri cinese, Lu Kang, aveva parlato di «ingenti danni all’economia di altri paesi e agli stessi Stati Uniti», arrecato dalle recenti decisioni commerciali di Washington, che a suo modo di vedere rappresentano un esempio tipico di «terrorismo economico, egemonismo economico e unilateralismo economico».
La settimana scorsa, il «Quotidiano del Popolo» aveva riportato i contenuti di una riservata quanto loquace visita del presidente Xi Jinping in una fabbrica specializzata nella lavorazione di “terre rare” (la Jl Mag Rare-Earth Co) della provincia di Jiangxi. Lì il presidente si era recato in compagnia del vicepremier e promotore dei negoziati commerciali, Liu He. Un gesto che già gli osservatori avevano letto come possibile risposta all’azione di Washington mirata a colpire Huawei.
Xi Jinping ha dunque estratto dal mazzo la carta delle “terre rare”. Si tratta di un gruppo di 17 elementi la cui importanza è andata crescendo negli ultimi anni grazie al vasto impiego che trovano nell’industria hi-tech e nelle energie rinnovabili. Questi materiali si diversificano in 3 tipologie in base alle dimensioni e alle caratteristiche strutturali, ovvero a una maggiore o minore facilità di separazione.
Le terre rare leggere (Lree) sono impiegate soprattutto nelle componentistiche di smartphone, microfoni, schermi, batterie ricaricabili e sono estratte per il 38 per cento delle riserve mondiali nella regione cinese della Mongolia interna. Le terre medie (Mree) e pesanti (Hree), utilizzate nella fabbricazione di display e raggi-x o per la costruzione di armi da difesa, sono possedute per il 90 per cento dell’offerta mondiale dalla Cina.
Dal 2014 al 2017, l’8o per cento delle importazioni statunitensi di questi materiali è stato dunque fornito dalla Cina. È curioso notare come questi metalli non rientrino nella lista dei dazi stabiliti da Trump, ma al contrario rappresentino un elemento fondamentale nella costruzione della stessa componentistica per smartphone che gli Usa non intendono più fornire alla Huawei. «Qualcuno vuole usare prodotti costruiti con le esportazioni di terre rare della Cina per contenere lo sviluppo della Cina», ha affermato mercoledì un rappresentante della Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme cinese.
Sono dunque questi i dati che hanno spinto molti studiosi ed economisti a ritenere quella delle terre rare un’arma facilmente spendibile nella rappresaglia commerciale cinese. «A quanto ne so la Cina sta seriamente valutando di restringere l’export di terre rare agli Usa» aveva twittato martedì il giornalista Hu Xijin, direttore dell’anglofono giornale pechinese «Global Times».
Però, come recita il proverbio cinese «non basta un giorno di freddo per gelare un fiume profondo», l’effetto di questa arma potrebbe essere insufficiente. Gli Stati Uniti, così come altri paesi come l’Australia, il Cile, l’Argentina, il Brasile, il Vietnam, disporrebbero infatti di possibili riserve minerarie alle quali attingere alternativamente a quelle cinesi. Eventualità diventata storia nel 2010, quando la Cina aveva interrotto temporaneamente l’esportazione a causa di una disputa territoriale con il Giappone.
Gli Usa avevano quindi avviato operazioni di estrazione in una miniera in California, anche se solo dopo tre anni l’avevano dovuta abbandonare a causa degli alti costi e del forte impatto ambientale. Le spese onerose e il deterioramento ambientale sono le stesse ragioni per le quali Pechino ha in corso una manovra di diversificazione dell’economia nella regione della Mongolia interna, sede principale di miniere di terre rare. Starebbe infatti puntando sulla biotecnologia, sulla manifattura e sulle energie rinnovabili.
E se da un lato l’estrazione delle terre rare potrebbe non essere il fronte su cui la Cina intende spostare la battaglia contro gli Usa, dall’altro l’aumento dei dazi sull’importazione di gas naturale dagli Stati Uniti rappresenta un’arma più concreta. Stando ai dati del 2017 raccolti dal centro di analisi e statistica statunitense Eia beta (U.S. Energy Information Administration) la Cina si trova al decimo posto tra gli Stati che possiedono più riserve naturali di gas. Ma con l’aumentare del benessere generale e della mole commerciale che amministra, il governo cinese si vede costretto a importare circa il 41 per cento dei suoi consumi di gas naturale liquefatto. Importazioni che, sulla base di dati Bloomberg aggiornati al 2018, provengono per il 14 per cento dagli Usa.
«Cosa succede se le forniture sono tagliate improvvisamente, come visto nel caso Huawei?» si è chiesto la scorsa settimana Wang Yongzhong, anziano ricercatore della Chinese Academy of Social Sciences, in un articolo pubblicato dal «South China Morning Post». Negli ultimi due anni il paese asiatico ha visto crescere esponenzialmente la richiesta interna di gas, dopo che il governo ha messo in campo le nuove normative per la tutela dell’ambiente, cercando di contenere lo sfrenato utilizzo di carbone. All’inizio del 2018 la Cina si è aggiudicata il primato mondiale nelle importazioni di gas naturale (la maggior parte di esso acquistato dal colosso russo Gazprom).
Ora, anche il gas liquido è stato incluso tra i controdazi cinesi, che comprendono anche petrolio e carbone, per un totale di 60 miliardi di controvalore. Una complessa partita a scacchi appena iniziata.
Foto Ansa
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